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integrazione.

FUORI IL PROSSIMO
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Cristina Viggè

2020-04-26T13:19:44+02:00

#dilloconpetra   Partecipa al sondaggio con 1 click 

 

Contiene un’intenzione, uno slancio, una tensione. Alla perfezione. La parola integrazione porta con sé un obiettivo positivo, propositivo e costruttivo: rendere intero, pieno e completo ciò che è difettoso, carente, lacunoso, incompiuto, manchevole di una parte. L’integrazione presuppone una mancanza. Che va colmata. Come? Non certo assimilando, assorbendo o incorporando una parte nell’altra. Bensì facendo incontrare le parti, nella condivisione di un medesimo contesto sociale. Nel rispetto di precise norme, regole e doveri, ma anche nel rispetto dei diritti e delle identità culturali, sociali e religiose delle parti. Basti pensare a una delle più esplicite negazioni dell’integrazione della storia: l’apartheid - in afrikaans “separazione” -, politica di segregazione razziale attuata nell’allora Unione Sudafricana.

Per meglio capire il concetto potrebbe concorrere la definizione che l’enciclopedia Treccani dedica all’integrazione nella fisiologia del sistema nervoso. Ossia: “la coordinazione e la confluenza di più attività elementari in un’attività complessa”. Traduzione: l’atteggiamento partecipativo dell’uomo, pronto ad agire e a interagire nel bene comune e nell’ambito di un consenso comune.

L’integrazione è anche una delle parole chiave adottate dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta dall’Onu. All’interno dell’obiettivo numero dieci, uno dei “traguardi” mira proprio a “potenziare e promuovere l'inclusione sociale, economica e politica di tutti, a prescindere da età, sesso, disabilità, razza, etnia, origine, religione, status economico o altro”. Nell’intento di eliminare ogni tipo di disuguaglianza dentro e fra le nazioni.

Questo momento di reclusione ha indubbiamente portato una frammentazione sociale e alla negazione di una socializzazione intesa come condivisione di un medesimo habitat. Ma forse ha portato a nuove formule di integrazione familiare e di armonizzazione nel medesimo nucleo abitativo. Una cosa è certa: dovremo tutti essere pronti a reintegrarci socialmente nel rispetto di nuovi dettami, in primis il social distancing. La sfida? È quella di trovare nuovi equilibri costruttivi.

 

SFOGLIA DA SINISTRA A DESTRA

Cristina Viggè
2020-04-27T17:19:25+02:00

Marina Orlandi a Sigep 2020 - Foto di Paolo Terlizzi

Marina Orlandi: Ferrara nel cuore

Per tutti lei è Mary. E la sua socia Giò. “Sì, siamo in due a guidare la pizzeria. Due donne. Determinate e ostinate. E con due caratteri completamente diversi. Al punto che è già una mission integrarci l’una con l’altra. Ma abbiamo una cosa in comune, che ci lega saldamente: noi non molliamo mai. Magari ci ammacchiamo, ma non molliamo”, dichiara Marina Orlandi, che con Giovanna Baratella porta avanti l’avventura di Slurp, nel cuore salottiero di Ferrara. “Fra noi c’è molta empatia. Virtù che ci ha permesso di costruire tutto il nostro progetto. Anzi, persino di allargarci. Integrando la pizzeria con nuovi posti e nuovi spazi”, continua Mary. “E poi c’è la bella integrazione con la nostra città. Dopo un inizio un po’ difficoltoso, ora dialoghiamo apertamente con lei e con i nostri concittadini. Facendo rete con i locali vicini”.



Riprese a cura di Marco Gallocchio nello stand di Petra - Molino Quaglia al Sigep 2020 - Rimini


Ed è proprio nel nome di Ferrara e per Ferrara che Marina ha deciso di reagire in questo momento complesso. “Al principio della pandemia ho sofferto. Ho accusato il colpo. Ma ora sto cambiando. E mi sono detta: se dobbiamo ricominciare, dobbiamo farlo con le persone di questa città”, continua lei. Felicissima dei molteplici messaggi d’affetto e stima ricevuti grazie a qualche consegna a domicilio. “Inoltre io e Giovanna abbiamo avuto tanta comprensione da parte del proprietario dell’immobile. E questo ci ha aiutate a continuare”. Insomma, l'elegante urbe estense risponde. E Mary e Giò ricambiamo, valorizzando le saporite specialità ferraresi ed emiliano-romagnole. Dai pinzini (noti anche come crescentine o gnocco fritto) alle tigelle, sino a sua maestà la salama da sugo. Messa mirabilmente sulla pizza. Femminilità, dunque. Come sensibilità, passione, caparbietà e volontà. Anche di far parte di un gruppo dinamico quale Donne di Pizza Donne di Cuore. Capace di integrare sette donne imprenditrici, provenienti da territori differenti, ma unite in un comune progetto di solidarietà e umanità.


La pizzeria Slurp - Da Mary e Giò riaprirà a Ferrara. Intanto Marina ci propone la ricetta dei suoi pinzini fritti o al forno. Perfetti da abbinare a culatello o squacquerone.


❓Riusciremo ad accettare una città che cambia❓
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Cristina Viggè
2020-04-27T17:49:16+02:00

Foto di Frank Winkler da Pixabay

Leggi l'articolo su corriere.it

Sapremo essere camaleonti? 

Mascherine. Distanziamento. Autocertificazione. Spostamenti limitati. Mezzi pubblici regolamentati. Sì all’asporto per bar e ristoranti, ma divieto assoluto per cinema, teatri e concerti. Pone ancora moltissimi diktat il decreto del presidente del consiglio dei ministri del 26 aprile. Dettami che, dal 4 maggio - meglio conosciuta come la fase 2 -, entreranno in vigore e muteranno la muscolatura delle città, la vita stessa delle città, il rapporto fra noi e la città. Sì, perché se fino ad ora questo link è stato negato, reclusi nel nostro ambiente familiare, la graduale ripartenza ci metterà di fronte a nuove forme di convivenza urbana. A un nuovo tipo di habitat e tessuto urbano. Fatto di ritmi più lenti e di orari differenti. Di luoghi aperti e di altri ancora chiusi. Di spazi accessibili e di altri in cui è vietato l’ingresso. Cambierà persino la nostra percezione della città. Che non sarà più lontana e distante, come durante la quarantena. Prima lei se ne stava là, fuori dalla finestra. Quasi oggetto del desiderio. Ora, finalmente la potremo toccare. Ma intanto lei avrà cambiato pelle. E noi? Dovremo essere novelli camaleonti.

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Cristina Viggè
2020-05-07T15:32:29+02:00

Nicola Olivieri a Sigep 2019 - Foto di Enrica Guariento

Nicola Olivieri: in the name of flour

“Sull’e-shop abbiamo spinto l’acceleratore. Certo, era già parecchio utilizzato. E noi lo abbiamo potenziato, organizzandoci ancora meglio. Basti pensare che a Pasqua eravamo in quattro al telefono per prendere le prenotazioni”, racconta Nicola Olivieri. Che con tutta la famiglia guida una realtà quale Olivieri 1882, ad Arzignano, in terra vicentina. Sì, 1882, come l’anno d’avvio dell’attività, grazie al trisavolo Luigi. Quando web, social e hashtag erano parole aliene. Eppure? Il marchio Olivieri ha saputo adeguarsi ai tempi. Evolvendosi, senza tradire la tradizione. Lanciando un canale virtuale, senza perdere la connessione col reale. Questione di integrazione, di congiunzione e di salda relazione. Fra materia e immaginario. Contesto fisico e spazio mentale. Offline e online. Dove le Colombe hanno avuto la possibilità di volare, giungendo non solo in tutta Italia, me pure in Francia, Germania, Regno Unito, States, Nuova Zelanda e Australia. Un vero successo. Che ha permesso di raccogliere una cospicua somma di denaro da devolvere in beneficienza agli ospedali San Bortolo di Vicenza e Cazzavillan di Arzignano: settemila euro, a cui gli Olivieri ne hanno aggiunti tremila. Giusto per raggiungere la quota tonda di 10mila.


Il bauletto by Olivieri 1882, proposto anche nell'e-shop

La collection di Bauletti by Olivieri 1882: classico; alle amarene, all'albicocca e caramello salato; alle pere e cioccolato; al cioccolato bianco e frutti di bosco; e ai tre cioccolati. Inoltre sono disponibili nelle trilogie tematiche: Delizia, Estivo, Goloso e Gourmet


E ora? Via che si continua a fare, proponendo delivery e takeaway e alimentando l’attivissimo e-commerce e rispondendo alle innumerevoli richieste. “Abbiamo già iniziato con i nostri Bauletti. Li presentiamo in sei gusti. Sono estremamente soffici, digeribili, perfetti per tutti i giorni. A colazione o a merenda”, continua il giovane Nicola. Che con i lievitati ci sa decisamente fare. Protagonisti di una food hall di moderna concezione. Un forno contemporaneo, in cui la produzione giornaliera interseca quella della sera. Un open space di 1.200 metri quadrati nei quali convivono, dialogano, si intersecano e interagiscono laboratorio, pasticceria, caffetteria, gelateria, panificio e pizzeria con cucina, focalizzata sulla pasta fresca homemade. In un’ideale (ma non utopica) circolarità creativa. Fedele al mantra “in the name of flour”.  


Il forno contemporaneo Olivieri 1882 di Nicola Olivieri ha riaperto ad Arzignano (Vicenza). Intanto Nicola ci propone la ricetta del suo pane con lievito madre e Petra 9.


❓Raggiungeremo l’armonia fra le parti❓
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Cristina Viggè
2020-05-07T16:00:01+02:00

Foto di Tegula da Pixabay

Leggi l'articolo su mixerplanet.com

Il modello Bahuaus ci potrà aiutare?

Compie 101 anni. Ma la sua idea e il suo messaggio sono modernissimi. E applicabilissimi all’oggi. Correva infatti il primo aprile 1919 quando nasceva a Weimar (per poi spostarsi a Dessau e infine e Berlino) la Bahuaus, illuminata e visionaria scuola d’arte e design che ha segnato un’epoca. E che continua a elargire spunti innovativi. Un luogo fisico, colmo di immaginazione. Una vera istituzione. Un sostantivo femminile e maschile, se inteso anche come stile e corrente di pensiero. Fedele ai principi dell’essenzialità, del minimalismo, dell’uso razionale e funzionale di tecniche e materiali. Per capire? Basta osservare l’edificio stesso dell’istituto, nonché i prototipi abitativi - come la Haus am Horn - firmati dal primo direttore: Walter Gropius. Residenze illuminate da una nuova forma di architettura. Più libera, pura, dinamica. Nutrita dalla luce, dalla leggerezza, dal rigore, dalla geometria e dalla bellezza. Un’architettura capace di rinunciare a mura portanti, per privilegiare pilastri e divisori più scattanti. Nel segno della flessibilità e della modularità. Perché è lì il punto. Creare forme in grado di adattarsi al futuro. Cambiando, aumentando di dimensione e sintonizzandosi su una nuova organizzazione degli spazi. Pronti a intersecarsi, a dialogare e a interagire. Fra loro e con l’esterno. L’esempio forse più noto è Casa Farnsworth, posizionata in un bosco, a un centinaio di chilometri da Chicago, e targata Ludwig Mies van der Rohe. Sì, il genio del “less is more”. Ma anche il fautore della fluida intimità e del liquido scambio fra dentro e fuori, costruzione e natura, solidità e trasparenza. Un bell’esempio. Da prendere a modello: per la vita e per la ripartenza di tutte le attività. Da intendere in maniera duttile, plasmabile e trasformabile. Anche in altro. Così, in una visione globale e circolare, l’online potrà convivere con l’offline; delivery e takeaway - per dirla con la ristorazione - connettersi con una nuova riorganizzazione della sala; e nuovi progetti ancorarsi al resto di realtà già ben radicate. Ecco, forse seguendo il fil rouge della coerenza, dell’ordine e di una logica in perenne evoluzione, potremmo trovare soluzioni da applicare al futuro prossimo venturo. Bahuaus insegna.

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Cristina Viggè
2020-05-13T15:45:20+02:00

Alessandro Cenedese a Sigep 2019 - Foto di Enrica Guariento

Alessandro Cenedese: cavalcando l’alta qualità

Prima giocava a rugby. Ora fa l’imprenditore. Ma è riuscito a trasferire nel suo mestiere tattica, potere decisionale, forza di squadra e capacità di andare sempre in meta. Integrando determinazione personale e visione corale. Lui è Alessandro Cenedese e con la famiglia gestisce la ristorazione interna di una serie di campeggi-villaggi d’eccellenza nella zona dell’Alto Adriatico. Per la maggior parte dislocati lungo quel litorale-penisola che va da Jesolo a Venezia, meglio noto come Parco Turistico Cavallino Treporti. Un ecosistema di grande valore, nutrito da spiagge dorate, orizzonti marini, paesaggi lagunari e orti rigogliosi. “Mio padre Angelo ormai conta una cinquantina di stagioni all’attivo”, dice orgoglioso Alessandro. “Noi seguiamo solo camping a quattro e a cinque stelle. E quest'anno abbiamo aggiunto al nostro poker d’assi un quinto tassello: il ristorante PiacerMio del Camping Village Marina di Venezia”. Gli altri? Eccoli: il ristorante Vanghetto (di ben duemila metri quadrati), nel cuore del Centro Vacanze Pra’ delle Torri (l’unico a Caorle); il ristorante-pizzeria Al Lido, all’interno del Garden Paradiso; il ristorante-pizzeria Dei Fiori, nell’omonimo camping; nonché il ristorante del Mediterraneo. Che alla riapertura conoscerà un'importante novità. “Sì, io dopo anni alle redini della parte food & beverage Dei Fiori, mi sposterò al Mediterraneo. Stiamo riqualificando tutta la zona delle Terrazze. Un’oasi lussuosa, che prevede il ristorante Il Cappero e persino una piscina a sfioro”.


Riprese a cura di Andrea Tadioli nello stand di Petra - Molino Quaglia a Sigep 2029



Ristoranti diversi. Coerentemente integrati con il tessuto sociale di ciascun camping-village. A sua volta inserito empaticamente in un territorio dinamico: un tempo caratterizzato da una forte vocazione rurale - basti pensare che un tempo qui si allevavano i cavalli per l’Impero Romano - e oggi divenuto un vero punto di riferimento per un turismo sostenibile ed en plein air. “A presidiare ogni ristorante c’è un nostro socio. Così da avere il massimo controllo. E poi cerchiamo sempre di rendere onore al made in Italy e ai prodotti locali”, continua Alessandro. Il che significa le crastraure di Sant’Erasmo, le verdure del Cavallino, le moeche, le seppioline, i gò della Laguna, i pesci azzurri. Il tutto sposando la legge dei grandi numeri, la filosofia dell’alta qualità e una proposta super variegata. Nel segno della flessibilità e della modularità. Che significa pure valorizzazione delle risorse umane e attenzione all'ospite. Tradizione e tecnologia. Sicurezza, riservatezza, condivisione ed entusiasmo. “Riusciamo davvero a coprire ogni aspetto del food. Perché la nostra proposta è all day long. E va dal cappuccino al cocktail, dalla pizza alla cucina, non dimenticando il takeaway. Per noi è la prassi. Siamo abituati a distribuire brochure in diecimila copie”, prosegue Cenedese. Prontissimo alla ripartenza.  


Il ristorante-pizzeria Dei Fiori e tutti gli altri gestiti dalla Società Interna Campeggi riapriranno a Cavallino-Treporti e a Caorle. Intanto, Manuel Barella, alla regia degli impasti, ci propone la ricetta per un aperitivo sfizioso: Tocama, ossia un pane da intingere in una salsina al tonno, carote e maionese.


❓Vacanze en plein air: una possibile soluzione❓
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Cristina Viggè
2020-05-13T16:19:34+02:00

Parco Turistico Cavallino Treporti - Foto da @VisitCavallino

Leggi l'articolo su pleinair.it

Estate: più vacanze all’aria aperta?

“E la chiamano estate, questa estate senza te […]. Il profumo del mare, non lo sento, non c’è più”, cantava Bruno Martino, interpretando un testo scritto da Franco Califano e Laura Zanin. Parole che tornano alla mente, pensando a un futuro prossimo venturo, in cui la tanto sognata vacanza è minata da distanziamenti, iper sanificazioni, limitazioni e mille incertezze. Ma forse la soluzione sta lì, davanti ai nostri occhi. Se ben sappiamo guardare. Un po’ come lo sono stati e-commerce, delivery e takeaway per la ristorazione, all’inizio non presi troppo in considerazione. Ecco, forse una vacanza auspicabile - e pure ecosostenibile - può esser quella en plein air. In un villaggio, in un campeggio ben attrezzato. Dove tutto è già pensato e studiato all’insegna della massima sicurezza, della pulizia e della riservatezza. Del resto, se ci pensiamo bene, sono proprio l’igiene, gli ampi spazi, il verde e una salutare vita all’aria aperta a rappresentare il plus valore di un camping. Icona di libertà ma anche di ragionata organizzazione. Un luogo dove la privacy si accorda perfettamente con la condivisione e il non fare sposa la possibilità di impegnarsi in variegate attività. In genere a contatto con la natura, col paesaggio e col territorio. Che diviene arte e parte integrante della vacanza. Intanto? Federalberghi, Confindustria alberghi e Assohotel firmano il protocollo “Accoglienza Sicura”, per una ricettività in totale serenità. Della serie, anche l’hôtellerie sta varando le giuste misure e linee guida. E poi, diciamolo: relais, resort e alberghi diffusi offrono un ampio raggio d’azione per ogni ospite. E un room service sempre pronto all’azione. E per chi ama lo spirito rurale? È ideale l’agriturismo, meglio ancora se suddiviso in appartamenti indipendenti.

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Cristina Viggè
2020-05-20T15:08:57+02:00

Federica, Renato e Riccardo Pancini

Renato, Riccardo e Federica Pancini: visione intergenerazionale

“Il prossimo anno Al Foghèr compirà trentacinque anni. Mentre il prossimo luglio festeggeremo il primo anniversario del nostro Al Foghèr Classic”, spiega orgoglioso Renato Pancini, guardando ottimista al futuro. Renato, che con i figli Riccardo e Federica guida ben due pizzerie in quel di Arezzo. In pieno centro storico l’insegna più giovane, caratterizzata da un design iper moderno, da nuance tortora e da un mood dinamico. Appena fuori città, in località Ponte alla Chiassa, invece il locale storico, aperto nel 1986 proprio da Renato. Segni particolari? Un look minimale ed essenziale, fatto di dettagli e di uno stile crossover. Fra ampi spazi, angolo impasti-cotture ben in vista, veranda coperta in legno, zona esterna e persino un orticello. Il tutto vicino alla campagna e poco distante dall’Arno. Anzi, dal punto in cui il fiume “torce il muso” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, Canto XIV) agli aretini, dirigendosi verso Firenze. Presente e passato. Modernità e storia. Integrate perfettamente in una coerente e circolare visione imprenditoriale. In cui ognuno riveste un ruolo definito. Renato alla regia (ma lui è pure founder e presidente dell'Associazione Pizzerie Aretine di Confcommercio); il giovanissimo Riccardo (annata 1996 e una laurea all’Università della Pizza di Vighizzolo d’Este) all’elaborazione degli impasti; e Federica (millesimo 1986) alla direzione della sala. Il tutto seguendo una filosofia ben precisa, concentrata sulla pizza. E solo sulla pizza.  


Riprese a cura di Andrea Tadioli presso lo stand di Petra - Molino Quaglia a Sigep 2019


Tre generazioni a confronto e in perenne incontro. Tre generazioni che si supportano in un lavoro nutrito dal fuoco - elemento presente nel logo - della passione e alimentato dalla ricerca. Tre generazioni sintonizzate sulla frequenza dell’eccellenza. Il che significa sentirsi parte di un progetto di filiera. In primis toscana. Basta connettersi con la loro pagina Facebook per leggere: “In questo delicato momento è importante sostenere i produttori locali. Gli ingredienti delle nostre pizze sono espressione del nostro territorio e provengono da contadini e produttori che, quotidianamente, ci consegnano le loro primizie di stagione e a chilometro zero”. Sì, integrare territorio e impasti è possibile. Come accade nella “Terre d’Arezzo”, tra fiordilatte, pancetta affumicata, pepe, pecorino e tartufo fresco. Che finisce pure su quella “Del Sultano”, preziosa di burrata, salmone affumicato, pistilli di zafferano e oro gourmet. Per non parlare delle pizze dessert. Qui un vero cult. Farcite con frutta fresca, creme e cioccolato. A conferma della massima sintonia anche fra dolce e salato.


Le pizzerie Al Foghèr e Al Foghèr Classic di Renato, Riccardo e Federica Pancini stanno per riaprire ad Arezzo. Intanto Riccardo ci propone la ricetta della sua pizza in teglia in versione casalinga.


❓Come ripenseremo il nostro habitat❓
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Cristina Viggè
2020-05-20T15:28:58+02:00

Foto di David Mark da Pixabay

Leggi l'articolo su elledecor.com

Città e campagna: convivenza possibile?

Sahara Square. Tundratown. Little Rodentia. Rainforest District. Bunny Burrows. Sono i quartieri-habitat di Zootropolis, la città immaginaria immaginata dal celebre cartoon firmato Walt Disney Animation Studios. Una polis-utopia, capace di concentrare tutti i climi, le aree e gli animali della Terra. Ma anche una metropoli che stimola qualche riflessione. In primis su una nuova visione del rapporto fra urbe e campagna. Due habitat diversi, ma spesso vicini e portati a dialogare fra loro. Meglio se in maniera positiva e costruttiva. Come esorta a fare l’undicesimo obiettivo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta dalle Nazioni Unite. In uno dei target (o traguardi) del goal 11, infatti, l’invito è quello di “Sostenere rapporti economici, sociali e ambientali positivi tra le zone urbane, periurbane e rurali, rafforzando la pianificazione dello sviluppo nazionale e regionale”. In un’ottica di integrazione e inclusione, e non di separazione, dei differenti humus urbani e agresti. Il senso? È quello della complementarietà delle funzioni e delle competenze. Della serie, la campagna deve continuare far la campagna. E la città non deve per questo tradire il suo credo. Ma il tutto in una prospettiva di interscambio concreto, utile e proficuo. “Per proteggere e salvaguardare il patrimonio culturale e naturale del mondo”.

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Cristina Viggè
2020-05-26T17:12:44+02:00

Davide Lucian a Sigep 2019 - Foto di Enrica Guariento

Davide Lucian: l’autoctono e l’esotico

“Questa torta l’ho voluta chiamare Incontro. Ed è dedicata a mio padre Donato. Perché a lui è sempre piaciuto il binomio nocciola e cioccolato. In realtà è l’upgrade di un dolce che facevo già, ma in maniera più complicata. Ora ho preferito semplificare il tutto”, racconta Davide Lucian, ufficializzando l’ingresso di una nuova delizia. Davide: classe 1983 e radici affondate nella Valle di Primiero. In quella parte orientale del Trentino che se ne sta ai piedi delle Dolomiti. Tuffata in un paesaggio incantevole. Dove lui è tornato, dopo aver inanellato il gotha dell’hôtellerie di lusso - dallo Splendido di Portofino al Pellicano di Porto Ercole, da Villa San Michele a Fiesole sino a Palazzo Bauer di Venezia. Non facendosi mancare una tappa oltremanica. “Dopo l’alberghiero mi sono specializzato nella preparazione dei dessert nei più grandi alberghi. Ma alla fine ho sentito il richiamo della mia terra. E sono ritornato”, spiega Davide. Che dieci anni fa apre una pasticceria a San Martino di Castrozza - che c’è sempre (ma in un’altra sede) ed è più cioccolato oriented - e nel 2016 inaugura a Mezzano il suo quartier generale. Con tanto di laboratorio. “Si tratta di uno spazio di 250 metri quadrati. Settanta sono dedicati al negozio, il resto è tutto lab. Ma non è ancora grande abbastanza”, continua l’artigiano. Che ha dovuto e saputo integrare l’estro e la fantasia della pasticceria da ristorazione con il rigore e le regole della pasticceria più tradizionale. Passando dal piatto al banco. “In realtà sono in guerra da dieci anni”, dichiara. “Ma alla fine sono riuscito a mettere insieme le due cose. A far sì che una completasse l’altra. Anche se nella pasticceria tradizionale prevale più la tecnica, mentre in quella da ristorazione tutto è concentrato sul gusto”.

Riprese a cura di Andrea Tadioli presso lo stand di Petra - Molino Quaglia a Sigep 2019


Una storia fatta di incontri quella di Davide. Di incontro con il suo amato territorio. E di incontri con altri territori. “La mia compagna è originaria di Goiânia, vicino a Brasilia. E ogni anno andiamo in Brasile”, racconta il pasticcere. Che ha integrato nel suo bagaglio culturale anche passion fruit, ananas e cocco. “Con questi ultimi due frutti preparo una pastina a base frolla, dedicata a mia mamma Donatella”, precisa orgoglioso lui. Che rende massimo onore anche a Mezzano, uno dei Borghi più Belli d’Italia. Facente parte del Parco Naturale di Paneveggio - Pale di San Martino. Così, all’interno di un progetto comunale quale “Mezzano Romantica”, ha messo a punto i biscotti “Romantici”, preziosi di fiocchi di mais, garnetole (mirtilli rossi), caréz (cumino selvatico) e botìro di Primiero. Un Presidio Slow Food. Un burro di malga profumato e aromatico, dalle nuance floreali ed erbacee. Un vero concentrato di montagna. Presentato nel caratteristico stampo in legno intagliato. “Io lo uso nel panettone e nei grandi lievitati. È un prodotto eccezionale. E utilizzato a crudo è ancora più buono”.


La Pasticceria Lucian di Davide Lucian ha riaperto a Mezzano e riaprirà a San Martino di Castrozza (Trento). Inoltre Davide ci propone la ricetta della sua torta di noci e miele.


❓Impareremo ad accettare il “diverso”❓
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Cristina Viggè
2020-05-26T17:38:29+02:00

Dall'orto biodinamico del ristorante La Cru - Villa Balis Crema

Leggi l'articolo su reportergourmet.com

Sapremo aprire nuovi “canali”?

Consegne a domicilio. Asporto. E-shop. E persino e-learning. Il lockdown ha aperto nuove finestre. Offerto nuove possibilità. Non certo a breve termine. Anzi, molti sono i ristoratori decisi a mantenere (almeno per un po’) i canali paralleli. Nel nome dell'integrazione fra attività a differenti velocità. A Milano, Andrea Berton lancia il suo poker d’assi: quattro box lunch & dinner (ciascuno composto da quattro piatti) pensati per takeaway e delivery. Nondimeno Wicky Priyan ha voluto declinare la sua raffinatissima Innovative Japanise Cousine anche in versione consegna o porto via. Non tradendo il fining dining e pensando a una futuribile zona bistrot. A Roma, Anthony Genovese e Mattia Zappile non hanno tradito Il Pagliaccio, dando forma a Turnè, un delivery di altissima qualità che ha le carte in regola per trasformarsi in una realtà a lungo termine. Mentre a Lavello, in provincia di Potenza, l’Antica Cantina Forentum darà presto forma al Forentum Sushi Bar, crasi nipponico-lucana in grado di valorizzare tecniche giapponesi e Presidi Slow Food locali e internazionali. “In questo periodo di lockdown non ci siamo mai fermati, anzi, abbiamo avuto modo di capire meglio le richieste dei nostri ospiti. Da qui l'idea di diversificare la nostra offerta” spiega lo chef patron Savino Di Noia.

L'orto biodinamico del ristorante La Cru, a Romagnano di Grezzana, nel Veronese


E poi? C’è anche chi, nel bel mezzo di un grande progetto, ne avvia un altro. Così fa infatti lo chef Giacomo Sacchetto, alla guida del ristorante La Cru, a Romagnano di Grezzana. In terra di Verona, nel cuore della Valpantena e ai piedi dei Monti Lessini. Ecco, nel pieno corso del restyling di Villa Maffei Medici Balis Crema - pronta a trasformarsi in un hotel di charme - Giacomo riapre gli spazi del ristorante, ora ospitati all’interno della Casa del Custode ma poi destinati a trasferirsi in una struttura di vetro e acciaio. Li apre al pubblico - con gli opportuni distanziamenti, nella massima sicurezza e con un QR code per la consultazione delle pietanze - e li amplifica pure. Grazie a un poker di gazebi posizionati in giardino, nonché due-tre tavoli con affaccio panoramico sulla valle. Una ripartenza che prende il nome di Re-Lab, battezzando una carta tutta nuova. Affiancata da due menu degustazione. Il tutto seguendo il fil rouge dell’orto biodinamico. Nel segno green della circolarità e della sostenibilità.


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Cristina Viggè
2020-06-15T16:18:44+02:00

Massimo Pica a Identità Golose 2019 - Foto di Thorsten Stobbe

Massimo Pica: insegnamento e allenamento

“Gli impegni? Forse ora sono molti più di prima. Perché sono concentrato su più fronti. Fisicamente e mentalmente”, svela Massimo Pica: millesimo 1985, radici nella salernitana Nocera Inferiore e un presente tutto milanese. Dove guida sia la pasticceria che porta il suo cognome - in via Ozanam 7 - sia la Pica Pastry School, in via Fortezza. Guarda caso. Visto che il maxi lab con corredo di aula-arena è una fortezza in tutti i sensi. Dislocata com’è su due piani, per un totale di 400 metri quadrati. “Ora mi sto dedicando soprattutto alle consulenze private. In genere one to one. Sto portando avanti corsi sulla gelateria, sui prodotti da forno e anche il cosiddetto cento ore, che va ad abbracciare tutti i rami della pasticceria”, precisa Massimo. Che continua a creare e pure a consegnare. E non solo rifornendo, come ormai fa da tempo, bar, locali e ristoranti cittadini. Ma anche arrivando at home.

Il croissant di Massimo Pica - Foto di Ioris Premoli

Le mini capresi di Massimo Pica - Foto di Ioris Premoli

Le forme della sfoglia secondo Massimo Pica - Foto di Ioris Premoli

La fondente creatività di Massimo Pica - Foto di Ioris Premoli

“Certo il delivery lo facciamo noi, in prima persona. Ora è molto richiesto nel weekend”, spiega il pastry chef. Che, sin dall’inizio, ha messo a punto un intero menu dedicato, capace di spaziare dal “Panciock” alla girella alla cannella, dalla pastiera alla caprese, dal babà in vasocottura al “Sorriso”, un lievitato da merenda prezioso di pesche semi candite. Non dimenticando di inanellare tutta la teoria dei croissant, anche in versione salata. E non trascurando il pane a lievito madre, il “Pan Pica Rustico” e le tagliatelle all’uovo. Dando così voce alla polifonia del Pica pensiero. Che va all’essenzialità, non rinunciando mai all’eleganza e alla ricercatezza. Fra linee minimali, curve sinuose e geometriche evoluzioni. Il suo libro Gusti Cromie Texture docet. Così come il suo mantra: “ricerca, innovazione, formazione”. Nel nome della massima integrazione.


Skizzo: dessert al piatto per la selezione italiana della Coupe du Monde de la Pâtisserie. Biscotto alla panna, namelaka alla cassata, croccantino al pistacchio, biancomangiare alle mandorle, ganache montata alla mandorla, glassa anidra mandorla e pistacchio, salsa agli agrumi, gelato alla ricotta e Strega e decoro in cioccolato agli agrumi - Foto di Ioris Premoli

Ma qualcosa bolle in pentola. “Stanno per partire i lavori per il nuovo locale, in piazzale Libia. Vorremmo essere pronti per la fine di settembre. Si chiamerà Pica Milano e sarà una pasticceria con bistrot. Tra fuori e dentro avremo duecento metri quadrati”, annuncia felice Massimo. Che dovrà affrontare un’altra grande sfida: la Coupe du Monde de la Pâtisserie, a Lione, il prossimo gennaio 2021. Visto che è proprio lui uno dei tre finalisti, per la categoria cioccolato (gli altri sono Andrea Restuccia per la categoria ghiaccio, e Lorenzo Puca per la categoria zucchero). “A partire da settembre è previsto l’allenamento. Sette giorni su sette. Dobbiamo fare come se fossimo in gara. Realizzare l’intero programma con tutte le prove a tempo. Del resto, più volte ripeti le pièce più sicurezza ti porti in competizione. E come se gareggiassi con l’olio santo in tasca”, ammette Pica. Che darà sicuramente il massimo. 


La pasticceria di Massimo Pica ha riaperto a Milano. E intanto Massimo ci propone la ricetta del suo babà in vasocottura.


❓Sapremo ripartire con una forma mentis vincente❓
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Cristina Viggè
2020-06-15T17:23:24+02:00

Foto di dan onaca da Pixabay

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Ritroveremo lo spirito olimpico?

“Possano la gioia e i buoni intenti amichevoli regnare, così che la torcia olimpica possa perseguire la sua via attraverso le ere, aumentando le comprensioni amichevoli fra le nazioni, per il bene di un’umanità sempre più entusiasta, più coraggiosa e più pura”. Queste le parole, ancora attualissime, di Pierre de Coubertin, il visionario barone - ma pure pedagogista e storico francese - fondatore delle Olimpiadi. O meglio, il rivoluzionario fautore della ripresa e della ripartenza dei Giochi Olimpici, tarati sull’epoca moderna. Correva infatti l’aprile 1896 quando il sacro fuoco tornò ad ardere ad Atene, riportando in auge un antico rituale - intitolato a Zeus e celebrato a Olimpia ogni quattro anni - andato perduto nel tempo. E facendo riemergere il valore e il senso della competizione, nel nome della forza, del coraggio, dell’incontro, del dialogo, del confronto e dell’integrazione fra Paesi e continenti diversi. Ritratti nei cinque cerchi colorati, fieri di intersecarsi fra loro. Come in un abbraccio solidale.

I tre finalisti italiani che parteciperanno alla Coupe du Monde de la Pâtisserie:
Lorenzo Puca, Andrea Restuccia e Massimo Pica


Agonismo, dunque. Non antagonismo. Un bel messaggio per tutti i popoli. Da rispolverare soprattutto ora, che il Covid ha bloccato i nastri di partenza delle Olimpiadi di Tokyo 2020, ufficialmente rimandate al 2021. Così come del resto gli Europei di calcio. La difficoltà? Per gli atleti sarà forse ritrovare la forma mentis vincente. Riprogrammare gli impegni. E integrarli con altri magari già presi. Perché talvolta il tempo è tiranno. Talaltra è invece un vantaggio. Dipende da come si affrontano e si guardano le cose. Massimo Pica, impegnato nella Coupe du Monde de la Pâtisserie nel gennaio 2021 (a Lione) sa bene cosa fare. Allenarsi, allenarsi, allenarsi. Concentrandosi in tutta serenità. Del resto, come insegna de Coubertain: “L’importante non è vincere ma partecipare”.  


Cristina Viggè
2020-06-24T14:51:22+02:00

Michele Basso e Alberto Arrigoni allo stand di Petra brindano con la Cuvée 1821 by Zonin

Arrigoni & Basso: il futuro è in fermento

Lo ripete. Quasi fosse un mantra: “Non ci si deve mai fermare. Non bisogna arrendersi. E non si molla niente”. Anzi: “Siamo impegnati in nuovi progetti”, dichiara orgoglioso Michele Basso. Che col socio Alberto ha dato vita, tre anni or sono, all’insegna che porta fiera i loro due cognomi: Arrigoni & Basso. In quel di Zero Branco, nella Marca Trevigiana. “Siamo una bella squadra. Perfettamente in sintonia. Con noi ci sono infatti anche i figli di Alberto, Filippo e Margherita, nonché la moglie Paola. Alberto si occupa degli impasti. È lui l’uomo con le mani nella farina. Io invece sono il jolly. Sto alla regia. Vado in sala, ma anche nella zona cucina e in quella pizzeria. Dove c’è bisogno mi sposto”, continua il dinamico ed energico Michele. Che ricorda le due grandi famiglie di pizze proposte: quella tonda e quella in pala. “D’estate un nostro cult è la pala con il magatello di vitello e la salsa tonnata. La carne la prendiamo da un macellaio locale. Una vera boutique. Appena fuori Treviso. Mentre il prosciutto cotto lo facciamo addirittura noi”, continua Basso.


Alberto Arrigoni - Foto di Thorsten Stobbe

Michele Basso - Foto di Thorsten Stobbe

Una proposta accurata e di alta qualità quella della pizzeria. Capace di valorizzare il territorio trevigiano e pure quello più lontano. Grazie all’utilizzo del capocollo di Martina Franca, della ’nduja di Spilinga, del fiordilatte, della burrata e dei pomodori pelati pugliesi, delle acciughe del Cantabrico, del gorgonzola dolce, della feta greca e delle olive di Calamata. Per un’offerta gastronomica dalle ampie vedute. Burger incluso. “Naturalmente con il pane fatto da noi”, precisa Michele. Puntualizzando la variegata proposta della casa. Che non trascura biscotti e lievitati dolci. Nel segno di una profonda conoscenza degli impasti. “Ora, per esempio, stiamo collaborando con una realtà di Roma. Sono in procinto di aprire e ci hanno chiamato. Sarà una consulenza continuativa”, svela felice Basso. Che con Arrigoni sta alzando notevolmente l’asticella. E non solo in Veneto. Dove un grosso progetto bolle in pentola.

Una delle pizze più fotografate di Arrigoni & Basso

“Prossimamente inaugureremo un altro locale. Sempre nel Trevigiano, ma dalla parte opposta. Quella che corre verso Pordenone. Fra Motta di Livenza e Annone Veneto. La location è fantastica. Prima era un agriturismo, ora lo stiamo trasformando in una pizzeria, con corredo di proposte di carne e pranzo della domenica. Si chiamerà Osteria della Pizza, e avrà pure undici camere. Il restyling in corso è di tipo conservativo, ovviamente. Lì c'erano tende, tovagliati pesanti e legno scuro. Noi vogliamo alleggerire un po'. Dare un’impronta nuova e fresca. Senza essere banali. Era il mio sogno nel cassetto. Tra l’altro, dietro passa una ciclabile e si può pensare a un bel discorso con le bike”. Sì, lievitano idee in casa Arrigoni & Basso.  


La pizzeria Arrigoni & Basso di Alberto Arrigoni e Michele Basso ha riaperto a Zero Branco (Treviso).


❓Come potremo evolverci❓
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Cristina Viggè
2020-06-24T16:00:53+02:00

La pizza Gaggan by Antonio Pappalardo e Gaggan Anand - Foto di aromi.group

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Quali possibili sinergie per il futuro?

In marketing lo chiamano co-branding. Due griffe si uniscono per presentare un prodotto, portando avanti un comune progetto. In perfetta sinergia e in armoniosa sintonia di intenti e obiettivi. Accade anche nel food. Certo. Basti pensare a Carlo Cracco e alla patatine San Carlo. Basti pensare a Gualtiero Marchesi e a Joe Bastianich e alle loro creazioni per McDonald’s. Basti pensare alla linea “Stellati” della maison Algida, che dopo il cornetto firmato da Isabella Potì manda in scena la summer e limited edition targata dal pastry chef Andrea Tortora. Ma a ben guardare persino le tanto celebrate cene a quattro, sei, otto, dieci e dodici mani rappresentano una sorta di co-branding fra più “cucine”, ciascuna con la propria indiscutibile identità. Sinergie, dunque. Possibili e auspicabili. Nuove connessioni, nuove interazioni, nuove relazioni. Culinarie, culturali, artistiche che siano. Ben vengano. Soprattutto quando integrano due visioni distanti. Anche mentalmente e fisicamente. Come è accaduto fra lo chef indiano super premiato Gaggan Anand (originario di Calcutta, ma di stanza a Bangkok) e il pizzaiolo Antonio Pappalardo, patron della Cascina dei Sapori di Rezzato, nel Bresciano (che intanto sta progettando l’apertura di una nuova insegna nel cuore della Leonessa).


Antonio Pappalardo, patron della Cascina dei Sapori di Rezzato - Foto di aromi.group

“Sono stato nel suo ristorante a Bangkok sei anni fa e ho sempre ammirato la sua idea di cucina, ma purtroppo non ho avuto modo di conoscerlo di persona. Così gli ho scritto e, nel corso degli anni, mi ha sempre risposto. Sino ad oggi, quando mi ha dato la sua disponibilità per questa iniziativa. Gaggan ama la pizza, così si è reso molto propositivo, dando gli input per gli ingredienti e su come valorizzarli al meglio. Il mio lavoro è stato di rendere fattibile la sua realizzazione e creare un perfetto equilibrio fra il topping e l’impasto”, spiega Antonio. Che, fino al 15 luglio, propone a cena (per il consumo placé e non da asporto) la pizza Gaggan: una tonda al piatto preziosa di patate, gorgonzola dolce, peperoncino fresco, olio al rosmarino, pesche, acciughe e pinoli. In carta? Sarà riconoscibilissima alla prima occhiata, presentata con le emoticons al posto degli ingredienti. Proprio come fa mister Anand nel suo ristorante. Un modo per ringraziare la fedele clientela, facendola viaggiare con la fantasia... e il palato. 


In carta, la pizza Gaggan esprime i propri ingredienti attraverso le emoticons

Intanto? Si concretizzano altre inedite sinergie. Fra due eccellenze italiane. L’una vicentina e l’altra torinese. Dalle competenze naturalmente differenti: Zonin, storica maison vitivinicola, all’alba del suo bicentenario; e Pininfarina, notissimo atelier di design. Mission? Rileggere la bottiglia della Cuvée 1821, una vera icona della casa veneta. Un Prosecco dal profilo unico, riconoscibile, contemporaneo. Meritevole di un abito ad hoc. Ambasciatore e sintesi di memoria e di futuro, di storia e di modernità, di materia e di immaginario, di autenticità italiana e di respiro internazionale. Ecco allora una bottiglia-scrigno caratterizzata da una retta verticale e precisa. A indicare l’expertise meticolosa, puntuale, solida e concreta. Mentre il segno circolare lascia presagire a un’apertura globale, nutrita dal senso umano della socializzazione e della condivisione. 


La Cuvée 1821 di Zonin ha un nuovo abito: firmato Pininfarina

“Un ulteriore, importantissimo passo, mentre Zonin si appresta a compiere 200 anni. È un onore condividere questo traguardo insieme. Una firma che ha contribuito a scrivere la storia del made in Italy. E ancor più attraverso Cuvée 1821, che riassume l’anima e lo spirito con cui la mia famiglia da sempre interpreta il ruolo del vino italiano nel mondo. Ci apprestiamo ad affrontare il 2021 con 200 anni di tradizione, ma con immutata passione e rinnovato entusiasmo”, dichiara Francesco Zonin, vice presidente di Zonin1821. Che ad oggi conta duemila ettari di superficie vitata, un team di 32 enologi e agronomi, nonché una decina di tenute, dislocate nelle sette regioni italiane a più alta vocazione wine. A cui si aggiungono la tenuta americana Barbousville Vineyards in Virginia e quella cilena di Dos Almas.

 


Cristina Viggè
2020-07-06T12:50:41+02:00

Antonio Polzella al Sigep 2020 - Foto di Paolo Terlizzi

Antonio Polzella: pizzaiolo, oste e contadino

“Siamo ripartiti bene. E il residence sta funzionando. Anche se quest’anno il turismo è più mordi e fuggi. Persino le pizze richieste sono più semplici. Gli ospito ordinano soprattutto Marinare e Margherite. Tutto il mood è più easy. Così ho preferito fare un passo indietro. Pure per i prezzi ho adottato una politica diversa. Tenendo un profilo più basso”, racconta Antonio Polzella, che con la famiglia guida una realtà poliedrica come La Ventola. In quel di Vada, sul litorale livornese, lungo la Costa degli Etruschi. Ristorante, pizzeria, residence e hotel (con piscina) incorniciati da una pineta selvaggia, in equilibrio fra il mare e i profumi della macchia mediterranea. Un autentico buen retiro. Costruito, passo dopo passo, dai genitori di Antonio: Giovanni e Lina, arrivati dal Molise agli inizi degli anni Sessanta. Agricoltori e braccianti, con le mani nella terra ma con lo sguardo puntato avanti. Al punto da trasformare l’azienda rurale prima in ristorante (nel 1975) e successivamente in uno spazio d’accoglienza tout court (nel 1999), con camere e appartamenti. Non dimenticando la ventola. Anzi, eleggendola e icona e logo del luogo. Quella ventola sul tetto che, animata dal vento e collegata a una dinamo, regalava l’energia necessaria per illuminare casa Polzella. Che oggi accoglie anche Marilena e Marta (la sorella e la moglie di Antonio), Davide (il marito di Marilena) e i piccoli Giacomo, Mirea e Alyssa.


Antonio Polzella: pizzaiolo e coltivatore

Mare, pineta, campagna. Certo. Antonio non ha dimenticato la campagna. “Abbiamo venti ettari di terreno. Di cui dieci destinati al grano. Quest’anno raccoglieremo verna e gentil rosso”, precisa orgoglioso il pizzaiolo-coltivatore. Ricordando anche le duemila piante d’ulivo nelle vicinissime terre di Collemezzano. Fiere di donare un olio battezzato Hinθial, come “anima” in lingua etrusca. “Inoltre ho realizzato ottomila metri quadrati di orto. Così avremo tutte le verdure e le erbe aromatiche per la cucina e per le pizze. Ma anche cocomeri e meloni. Mi piacerebbe dedicare una pizza vegetariana ai miei genitori. Che mi stanno dando una grande mano anche in questa nuova impresa”.

La Ventola: residence, hotel, ristorante e pizzeria a Vada, Livorno

Intanto? Antonio non si ferma. E mette in campo pure il picnic. Allestendo un’area dedicata, proprio davanti al ristorante. “Ho messo tavoloni e tavolini, con corredo di tovaglie a quadrettoni. Quelle che avevamo quando aprimmo negli anni Settanta. È un po’ come tornare alle origini. Ma la proposta sta piacendo moltissimo. Abbiamo anche creato una struttura in legno. Una sorta di chiosco drive & takeaway. Le persone arrivano, prendono la pizza e tornano a casa, oppure si fermano a mangiare all’aria aperta. Tutto in maniera smart e rilassata”, spiega sereno Antonio. Orgoglioso della sua idea. Che va a integrare e a completare perfettamente il servizio al tavolo. 


Antonio e Giovanni Polzella nell'oliveto 

L'olio extravergine d'oliva prodotto nell'azienda agricola di famiglia

Gli interni del ristorante-pizzeria

La zona "produttiva" all'interno del ristorante

In carta? Linguine ai frutti di mare, ma anche pappardelle al cinghiale. Taglieri del contadino, ma anche fritture di pesce. E poi loro, le pizze. “Utilizzo soprattutto Petra 1 e Petra 9, mentre il lievito madre lo rinfresco con la farina Panettone. E per il pane uso tantissimo il Bonsemì e i germinati”, racconta Polzella. Che fra le sue “chicche” annovera la Fior di Formaggi, summa di fiordilatte, pecorini a latte crudo L’Angelico e S.Antonio dell’azienda agricola Saba (di Massa Marittima), stracciatella del caseificio Val di Cecina, brie, vecchio cacio di Pienza e parmigiano reggiano; la Portoferraio, con polpo, patate del Fucino, olive nostraline, pesto, pinoli di San Rossore e basilico; e l’Insuperabile, preziosa della cipolla di Certaldo e del tonno della Conserveria Tonnina dell’Isola d’Elba. Mentre fra le “spicchiate” spiccano la Tosco Emiliana, con burrata Val di Cecina, parmigiano reggiano, pecorino S.Antonio, Bazzon Cotto del Podere delle Pianacce e crudo riserva Bazzone della Garfagnana (Presidio Slow Food). Che torna nell’Etrusca, pizza “ripiegata” alla cui bontà concorrono pure carciofi e crema di carciofi.   


La pizza Tosco Emiliana

Antonio Polzella mentre inforna il pane

I tagliolini al tartufo

La pizza Alyssa: la combo perfetta fra pistacchi e mortadella


Rusticità ed eleganza nelle pizze di Polzella


Il Ciaccino 5 & 5 a modo mio - Foto dal libro Di grano in grano, edito da Gribaudo

Antonio Polzella e Sara Papa al Sigep 2020 - Foto di Paolo Terlizzi

Toscana. Tanta Toscana nelle pizze di Antonio. Che naturalmente non tradisce il “ciaccino”. Elaborandolo in versione 5&5 a modo mio: una sorta di focaccia in pala farcita con la tipica torta di ceci, burrata e melanzane grigliate. “Il nome 5 e 5 deriva dalla consuetudine, in uso a partire dalla metà del XX secolo, di chiedere al tortaio (il venditore di torta) 5 centesimi di pane e 5 centesimi di torta, ovvero, abbreviando, un 5 e 5”, come si legge (a pag 142) nel volume Di Grano in Grano: edito da Gribaudo e scritto in tandem con Sara Papa. “Collaboro anche con il Piccolo Birrificio Clandestino di Livorno. Io gli porto i miei grani, dal senatore cappelli al verna, dal gentil rosso al farro monococco, e il birrificio produce la Trepponti Ventola Edition. Che si trova qui da noi, ma anche in altri locali”. 


La Ventola di Antonio Polzella e famiglia ha riaperto a Vada (Livorno).


❓Quali nuove liaison fra terra e mare❓
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Cristina Viggè
2020-07-07T14:49:42+02:00

Una tartare di pesce al nuovo Molo Sant'Erasmo di Palermo

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Riusciremo ad ancorare il mare alla città?

Dei porti fecero la loro ragion d’essere le Repubbliche Marinare di Genova, Venezia, Pisa e Amalfi. Perché si concentrava lì la loro forza: in quello spazio saldamente legato alla terra e infinitamente proiettato all’orizzonte, verso il pelago e nuove conquiste. Oggi? Molti sono i porti ancora capaci di mantener saldo il proprio valore commerciale e turistico. Basti pensare a Trieste, Ravenna, Cagliari e la stessa Zena. Ma ve ne sono anche altri che stanno rinascendo e riconquistando il loro senso perduto. Anzi, che stanno acquisendo un diverso e colto significato. È il caso di Palermo. La “città che ha voltato le spalle al mare”, come disse Leonardo Sciascia. Affermazione finalmente smentita. Grazie a un importante progetto di riqualificazione dell’intero waterfront, fortemente voluto dall’Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sicilia Occidentale.

A Palermo il mare torna a parlare con la città

Sì, Palermo torna a dialogare con il suo mare. O meglio, il mare diviene parte integrante della città. Là, dove il fiume Oreto termina la sua corsa, tuffandosi nel Mediterraneo. Là, dove resiste ancora una piccola comunità di pescatori. La, dove il 10 luglio, nasce il Molo Sant’Erasmo, la nuova avventura ristorativa di Saverio Borgia, già capitano, col fratello Vittorio, della griffe Bioesserì. Presente sia nel capoluogo siciliano sia a Milano (con ben due locali).

Il Molo Sant'Erasmo fa parte di un ampio progetto di riqualificazione del porto palermitano

"L’apertura di un ristorante gestito da giovani che dà lavoro ad altri giovani merita fiducia e un grande in bocca al lupo. Il recupero del porticciolo di Sant’Erasmo è stato il primo nodo sciolto sul waterfront di Palermo: a questo spazio abbiamo destinato energie e denaro, e il risultato ci ha dato ragione. Già a partire da questa anomala estate i palermitani potranno fruire di un luogo sul mare, dotato di strutture di accoglienza e ristoro, una naturale prosecuzione verso sud della Cala e del verde del Foro Italico di cui la gente si è già appropriata. Nonostante l’emergenza sanitaria abbiamo aggirato la lentezza che accerchia le opere pubbliche in Italia e siamo orgogliosi di questa inaugurazione, soprattutto perché quando si riqualifica si aprono spazi lavorativi importanti e sappiamo bene quanto, nell’immediato, sia necessario investire per ripartire”, spiega Pasqualino Monti, presidente dell’AdSP del Mare di Sicilia Occidentale.

Fra bianco e blu al Molo Sant'Erasmo

"Riportare il mare e i suoi sapori in centro città: questo è quello che mi ha spinto a credere in questa sfida. Molo Sant'Erasmo sarà un luogo per tutti, una trattoria dal gusto contemporaneo, fuori dai soliti stereotipi a cui siamo abituati. Una cucina sincera, senza orpelli o dettagli pretenziosi, ma gustosa. Abbiamo realizzato dei piatti che sanno leggere le esigenze della ristorazione contemporanea, ma rimangono legati alla concretezza della tradizione”, puntualizza Saverio. Che con la coraggiosa impresa ha anche dato venticinque nuovi posti di lavoro.

Il Molo Sant'Erasmo è la nuova realtà firmata Saverio Borgia

E così, fra vetro, ceramiche bianche e blu, e una palma come faro, prendono forma pietanze capaci di cogliere l’essenziale, inebriandosi di solarità. Polpette di pesce azzurro, ittiche tartare, sauté di cozze, tacos di gambero rosso (ma anche parmigiana di melanzane) sono pronti a regalare una nuova narrazione del mare. Tutti i giorni, dalle 12 alle 2 di notte.

Ancôa, il bistrot de Il Marin, conquista uno spazio al Porto Antico di Genova

Mangiando vicino al Bigo di Renzo Piano

Intanto? Anche a Genova qualcosa si muove. Ma non è il mare. È invece il vento. Il marin, per l’esattezza, quello caldo e odoroso che soffia dalla Liguria fino alle Langhe, e da cui mutua il nome il ristorante guidato da Marco Visciola: Il Marin per l’appunto, al secondo piano di Eataly Genova, all’interno dell’Edificio Millo, nel cuore del Porto Antico. La grande piazza pieds dans l’eau. Un vento di passione che smuove vibranti energie. Tant’è che l’Anciôa, il bistrot del Marin, lascia (fino a settembre, tutti i giorni, dalle 12 alle 24) i piani alti per conquistare il suo pied-à-terre a due passi dal Bigo di Renzo Piano. Con intorno la Biosfera, l’Acquario e un angolo urbano pulsante di vita. 


Acciughe, burro e pane rustico da Anciôa

La panzanella di polpo by Anciôa

Lo chef Marco Visciola

La Marin... aretta alle acciughe

Della serie, Il Marin resta ancorato a dov’è sempre stato, mentre la sua anima easy si sposta near the sea, proponendo una cucina ligure moderna, che si affida al pescato della Cooperativa Pescatori di Camogli: fiera di possedere l’unica tonnarella della regione, tutelata come Presidio Slow Food. In carta? Acciughe del Mar Ligure e tonno alalunga su pane rustico e burro; gamberi biondi e gamberi viola; tonno e melone; panzanella di polpo; baccalà e friggitelli, nonché insalate che vantano sempre un elemento marino, dalla salicornia alla maionese alle alghe. Non dimenticando le Marin… arette, preparate a partire dalla focaccia genovese, ma a foggia di soffice pagnottella e poi farcite. Anche con sgombro affumicato, zucchine trombetta, erbe liguri e prescinseua. E se nel pomeriggio si fanno avanti i gelati della gelateria alpina Làit, per l’aperitivo si possono ordinare i cocktail firmati dal secret bar Malkovich. E da giovedì 9 luglio, serate a tutto sushi ligure in collaborazione con Broadside Sushi. Per dar voce al lato poliedrico e poliglotta del mare. 

 



Cristina Viggè
2020-07-23T14:21:02+02:00

Giacomo Devoto con Giuseppe Messina al Sigep 2020 - Foto di Paolo Terlizzi

Giacomo Devoto: dal mare a quota 2.400

“Il nostro nuovo progetto? È l’azienda agricola di Fosdinovo. Adiacente alla Locanda de Banchieri. Un’azienda dedicata alle carni bianche da cortile, ma anche agli ortaggi e all’olivicoltura. Per capirci: l’orto è attaccato alla cucina e l’insalata per la cena la raccogliamo alle 19. Così risulta freschissima e croccante. Idem a colazione. Le uova sono quelle delle nostre galline. Proposte sode, scrambled, oppure in omelette”, racconta Giacomo Devoto, titolare visionario e volitivo di ben tre insegne tutte italiane. E tutte genuinamente “nutrite” dai prodotti della neonata farm in provincia di Massa-Carrara. Anzi, a voler essere precisi, in Lunigiana, landa crossover che tocca Emilia, Toscana e Liguria. In perfetto equilibrio fra il mare, il fiume Magra, le Apuane e l’Appennino Tosco-Emiliano.

Lusso sussurrato alla Locanda de Banchieri di Fosdinovo, in terra di Lunigiana

Lunigiana. Terra della Luna (e dei cento castelli). Terra di passaggio, di incontri, di contaminazioni e di integrazioni. Terra dell’antica città romana Portus Lunae, oggi Luni. Terra dove spiccano pure la spezzina Sarzana e le Officine del Cibo, l’altra “casa” firmata Devoto (in località Battifollo). Mentre per scoprire il terzo locale serve scalare le montagne valdostane. Visto che la Baita Belvedere si trova sull’Alpe Salere Superiore, a Champoluc, in Val d’Ayas. A 2.400 metri di quota.

Una delle belle camere della Locanda de Banchieri

“Qui invece ci troviamo a 300 metri sul livello del mare. Che se ne sta a soli sei chilometri. Ma cenare e dormire alla Locanda de Banchieri è davvero un’esperienza emozionale. Abbiamo quattro camere e quindici coperti al massimo. Naturalmente su prenotazione. Uno spazio molto intimo, riservato ed esclusivo”, puntualizza Devoto, facendo focus sulla dimora storica: un tempo appartenuta alla potente famiglia dei Banchieri e oggi trasformata in un buen retiro dalle atmosfere charmant. Le cui room sono intitolate alle celebri famiglie degli Ubaldini, de’ Medici, Castrucci e Malaspina. Evocati da Dante Alighieri nella Divina Commedia. 


Formaggi e altri prodotti della Lunigiana alla Locanda de Banchieri 

“Alla Locanda ci sono io in cucina. E propongo due menu degustazione da dieci portate. Incentrate sulla terra e sul mare. Si tratta di piatti diretti, che sanno bene dove andare, senza fare voli pindarici. Pietanze che eleggono a protagonisti ingredienti autoctoni lunigianesi. Riletti in chiave creativa, per non andare in competizione con le ricette della nonna, ma riuscendo comunque a valorizzare il territorio. In futuro vorrei però ampliare i menu. Per esempio mi piacerebbe proporne uno in omaggio alle diverse regioni d’Italia. In una sorta di Grand Tour. E mi piacerebbe anche creare un mini percorso di entrée dedicato alle ricette tradizionali di questa zona, presentate in versione miniaturizzata. Tipo i testaroli pontremolesi, il muscolo ripieno alla spezzina. Ma dobbiamo attendere nuove stoviglie e raggiungere l’optimum dell’organizzazione”, continua il meticoloso Giacomo. Che per la mise en place ha già scelto alzatine in porcellana di Limoges, posate Gio Ponti by Sambonet e bicchieri griffati Zafferano.

Colazione d'eccellenza alla Locanda de Banchieri

Giacomo, che non trascura qualche proposta alla scoperta della medievale Fosdinovo (la “Fauce Nova”, ossia la foce stradale nuova), premiata con la Bandiera Arancione del Touring Club; o all’insegna dell’area archeologica di Luni, con il suo museo e quel che resta di signorili domus. Il tutto corredato di visita in cantina. “Certo, abbiamo stretto sinergie con Diego Bosoni delle Cantine Lunae di Castelnuovo Magra e con Ivan Giuliani della locale azienda agricola Terenzuola”, commenta orgoglioso Devoto. Che, intanto, fa la spola fra la residenza con ristoro e le sarzanesi Officine del Cibo.


Giuseppe Messina e Giacomo Devoto - Foto di Stefano Caffarri

Officine, a sottolineare non solo l’arte di saper fare, ma pure quella di sperimentare e di mettersi costantemente in gioco. Con il napoletano Giuseppe Messina alla regia degli impasti. E con la piccola cucina a dar voce a croxetti (tipici di Varese Ligure e fatti con l’iconico stampo in legno); lattughine ripiene di tuccu (salsa di pomodoro al lardo e parmigiano stravecchio); cima di vitello ripiena alla levantina; nonché stocco con fagioli di Pigna e Conio e cipolla di Treschietto. Per una proposta capace di sintetizzare l’universo ligure (e lunigianese) e il verace mondo partenopeo della pizza. Realizzata con le farine Special e Petra 3.


Alle Officine del Cibo di Sarzana, liaison fra Liguria e Campania - Le foto sono di Stefano Caffarri



“Una delle nostre pizze signature è senza dubbio Le conserve della nonna, con verdure al naturale e fermentate in acqua e sale, pomodoro giallo e pesci marinati. E un’altra ancora è la Petrilli all’antica, con il pomodoro di Paolo Petrilli marinato con l’aglio di Vessalico, l’origano della nostra azienda di Fosdinovo, la mozzarella di bufala campana La Favorita e una bella grattugiata finale di parmigiano reggiano delle vacche rosse di un caseificio della Val d’Enza, vicino al Passo del Lagastrello”, racconta patron Giacomo. Che non dimentica la pizza con baccalà e clorofilla di erbe aromatiche di macchia, nonché un antichissimo cult regionale quale la Piscialandrea (in onore dell’ammiraglio onegliese Andrea Doria). Una sorta di pizza in padellino - con Petra 3 e Petra 9 - preziosa di acciughe, pomodori, capperi e olive. 


La Piscialandrea, ossia la grande tradizione ligure - Foto di Stefano Caffarri

La pizza al vapore, ossia la massima sofficità - Foto di Stefano Caffarri

La riscossa del cornicione: La parte più buona della pizza - Foto di Stefano Caffarri

Il calzone fritto (e caldo) incontra gli ingredienti a crudo (e a freddo) - Foto di Stefano Caffarri

Una mini pizza tonda napoletana per chiosare la degustazione - Foto di Stefano Caffarri

“Inoltre abbiamo introdotto una serie di degustazioni”, puntualizza il deus ex machina. Che snocciola un tasting a tutte pizze veraci napoletane; uno incentrato sul concetto di PizzaLab, mano libera di Giuseppe a ritmo di fritti, pizze e panini al vapore (anche farciti con una buona genovese); e un altro battezzato Ti raccontiamo la nostra pizza. Excursus che parte dal passato - con la leggendaria Piscialandrea - per giungere alla contemporaneità. Passando per un assaggio di pizza al vapore (con pomodoro, clorofilla di basilico, crema di burrata ed extravergine Coppini affumicato), seguito da due provocazioni. Anzitutto la riscossa del cornicione. Traduzione: La parte più buona della pizza, condita come se fosse una pasta al pesto accomodata: con brillante pesto artigianale, pepe, pinoli e crema di patate. Nonché la rivisitazione del calzone fritto: svuotato e riempito con ingredienti “a freddo”, per un bel contrasto fra esterno e interno. Ad esempio, con la mortadella Favola by Bonfatti, la crema di burrata, la saba dell’Acetaia San Giacomo e una polvere di arance amare. “A chiudere poi serviamo una mini verace tonda. Per accontentare gli irriducibili della pizza napoletana. Proponiamo una Marinara bella spinta e sapida. Con pomodoro del piennolo di Maria Coppola e bufala”.

Lassù a Champoluc, alla Baita Belvedere - Foto di Stefano Caffarri

La carne, protagonista alla Baita Belvedere - Foto di Stefano Caffarri

Ma Giacomo fa anche la spola dalle Apuane all’Alpe Salere di Champoluc. Dove guida il Rifugio Belvedere. “Tanto sono tranquillo. Il restaurant manager Igor Vendemia supervisiona tutte e tre le strutture”, dichiara Devoto. Che ha affidato la cucina della baita con camere (e pure con mini piscina panoramica) allo chef Nicolò Salvagnin. Che tutti i venerdì di luglio e agosto manda in scena la Grigliata Atomica. Mentre ogni sera propone un poker di degustazioni: dalla mano libera all’assolo di manzo, dalle carni alla griglia alle carni bianche dell’agriturismo in Lunigiana. “Ma il prossimo inverno tornerà la pizza ad alta quota”, preannuncia felice Devoto. 


Le Officine del Cibo, la Locanda de Banchieri e il Rifugio Belvedere di Giacomo Devoto hanno riaperto a Sarzana (La Spezia), a Fosdinovo (Massa-Carrara) e a Champoluc (Aosta).


❓Riscopriremo il valore della zootecnia❓
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Cristina Viggè
2020-07-24T13:54:19+02:00

La Preséf: una stella Michelin all'interno dell'azienda agrituristica La Fiorida

Leggi l'articolo su identitagolose.it

Può una stalla dar più luce a una stella?

Possono entrare e uscire. Liberamente. Contando su verdissimi prati all’esterno e ampi spazi all’interno. Vitelli, manze, manzette e vacche in lattazione, a La Fiorida di Mantello (Sondrio, in Bassa Valtellina), godono di ambienti vivibili e vitali. Sintetizzati in una stalla di oltre 1.800 metri quadrati, perfettamente organizzati e pensati per ospitare duecento capi di bruna alpina. Non solo. I pannelli solari posizionati sopra la stalla bovina assicurano una parte dell’energia elettrica. Mentre l’acqua calda è garantita al cento per cento dagli scarti delle segherie della zona (i cosiddetti cippati).

L'eleganza della ruralità a La Fiorida di Mantello, Sondrio


Gli spazi affascinanti del ristorante La Preséf, che significa la mangiatoia

Un’azienda agrituristica (quasi) autosufficiente La Fiorida. Lombarda creatura agreste ed elegantissima di un imprenditore visionario come Plinio Vanini. Che con semplicità è riuscito a raccontare l’eleganza della ruralità. Suggellata persino dalla stella Michelin, che Gianni Tarabini porta con orgoglio tatuata sulla divisa de La Preséf, facente parte di Charming Italian Chef. Anche se lui è executive di tutta la struttura, seguendo anche il ristorante più tradizionale Quattro Stagioni. Sempre facendo la spesa direttamente in fattoria. Ovvio. Le carni sono infatti quelle di “casa” e i formaggi quelli prodotti (e stagionati) dal caseificio: dallo Scimudin alla Latteria, passando per Valtellina Casera e Bitto. E non dimenticando ricotta, mozzarella, burrata, burro, yogurt, gelato e latte. Il vero oro bianco della farm. Basti pensare che qui la mungitura è un rito da onorare alle 5 e alle 17. E ogni capo regala 25 litri di latte al giorno, per un totale di 75 quintali all’anno.

Le vacche pascolano libere a La Fiorida

Nella stalla de La Fiorida

Latte e gelato griffati La Fiorida

Lo chef Gianni Tarabini negli ambienti di stagionatura del formaggio

E poi? Ci sono i maiali - pronti a nutrire la lunga filiera dei salumi - e le capre di razza camosciata delle Alpi, il cui latte alimenta una linea di cheese ad hoc (tutti i prodotti sono anche in vendita sull’e-shop). A cui si vanno ad aggiungere gli orti, i frutteti, le serre, le camere e la beauty “farm” (nel vero senso della parola, visto che non manca il bagno nel latte). Della serie, quando il noto adagio “dalle stelle alle stalle” acquista tutt'altro significato. E la stalla dà linfa vitale alla stella, rendendola ancor più luminosa e arricchendola dei valori dell’ecosostenibilità e della contaminazione fra i saperi della terra e della tavola.

La tenuta agricola di Borgo Santo Pietro conta trecento pecore


La grande bellezza di Borgo Santo Pietro, nel Senese

Una delle suite di Borgo Santo Pietro, toscanissimo Relais & Châteaux

Non manca certo il pollaio a Borgo Santo Pietro

I pecorini prodotti artigianalmente a Borgo Santo Pietro

E proprio al concetto di farm to plate si rifà pure la filosofia di Borgo Santo Pietro, fascinoso Relais & Châteaux in quel di Chiusdino, in terra di Siena. Un resort lussuoso ed esclusivo, che si dipana fra giardini e suite, orti e terrazze, boschi e vigneti, nonché una fattoria, una Trattoria sull’Albero (progettata intorno a una grande quercia) e ben due stelle Michelin. Certo, perché una suggella il ristorante del relais Meo Modo, mentre l’altra brilla sulla Bottega del Buon Caffè di Firenze (eleggendo a logo due zampe di gallina). Due astri che pescano a piene mani dalla tenuta agricola del borgo: 270 acri a coltivazione biologica, dove convivono vitigni, verdure, frutti, erbe aromatiche, api (qui si produce pure il miele), galline, maiali, alpaca (preziosi per la loro lana), pavoni e ben trecento pecore. Felici di pascolare lungo il fiume Merse, nonché di donare il loro latte al caseificio del borgo. Dove nascono robiole, ricotte e pecorini. Freschi, stagionati e aromatizzati. Nel segno della massima integrazione. E della valorizzazione degli animali. Che concorrono appieno all’ecosistema circolare di ogni azienda agricola.

Il ristorante Meo Modo di Borgo Santo Pietro, insignito della stella Michelin

Un pavone alla corte di Borgo Santo Pietro

La Trattoria sull'Albero, a Borgo Santo Pietro

Ci sono anche gli alpaca nell'azienda agricola di Borgo Santo Pietro

La Bottega del Buon Caffè di Firenze, l'altra stella Michelin di Borgo Santo Pietro

E in Abruzzo? La fattoria torna. A far da colonna portante a un ristorante come Villa Maiella, luminosissima roccaforte di Guardiagrele, in provincia di Chieti. A guidarla da sempre? La famiglia Tinari. All’inizio (Anno Domini 1966) con Ginetta e Arcangelo. Oggi con Peppino e la moglie Angela, e i figli Arcangelo (in cucina) e Pascal (in sala). Due energici e volitivi Jeunes Restaurateurs. Ed è proprio Peppino ad occuparsi della farm, fra ortaggi a gogo e grugnanti maialini neri, accuditi con passione e dedizione. Per capire? Basta ordinare il Menu del Territorio. E i saporiti salumi homemade si fanno avanti. Fra chitarra di patate con fonduta di pecorino; pallotte cac’ e ova e pollo di campagna. Un'esperienza: rurale e raffinatissima.

Pascal Tinari di Villa Maiella e i maialini neri d'Abruzzo

Pascal, mamma Angela, papà Peppino e Arcangelo Tinari, alla guida di Villa Maiella


La chitarrina al ragù d'agnello è un must a Villa Maiella

Il nobile carrello dei formaggi di Villa Maiella, a Guardiagrele

Intanto? Marco Bottega sta nella sua Arcadia contemporanea: l’Aminta Resort di Genazzano. Nell’entroterra laziale. Non lontano dalla Città Eterna e dal Parco dei Castelli Romani. Aminta, come la protagonista della favola pastorale di Torquato Tasso. Perché di locus amoenus (stellato e Chic) si tratta: una collina, due casali di fine Ottocento e cinquanta ettari di spitrito contadino, incorniciati da boschi e impreziositi da 2.500 piante di noce. E ancora, ulivi, alberi da frutto, ortaggi, anatre, oche, polli e maiali. Mentre, fra i prati e la selva, vagabondano cinghiali, pecore e capre. In carta? Domina lo spirito bucolico, tradotto nelle lumachine nell’orto; nella quaglia nel suo nido; nei bottoni di lepre in salmì con ortiche, tartufo e lamponi; nella coscia di maialino all’anice stellato, petali di mela marinata al timo e salsa di friggitelli; e nel lombo d’agnello con patate, lattuga e rape rosse cotte sui carboni di noce. Natura docet. 


Marco Bottega nel suo Aminta Resort, a Genazzano, non lontano da Roma

L'anima bucolica di Aminta Resort

Da Aminta c'è pure la cheese room

Marco Bottega e le lumache

Poi c'è l’eccezione. Quella che (sempre) conferma la regola. Lui la stella non ce l’ha (almeno per il momento), ma la stalla sì. Eccome. O meglio, a seguirla è papà Flavio, che dirige galline, capre, maiali e mucche. Chiamandole per nome. E riverendo il loro latte come se fosse oro. Sì, proprio una bella storia quella di Riccardo Gaspari, dei suoi genitori (Flavio e Giuliana) e della moglie Ludovica Rubbini. Un ritratto di famiglia, ma pure di Cortina d’Ampezzo e di una malga nel lariceto. El Brite de Larieto, da dove tutto ha avuto inizio e dove tutto continua. Con passione e dedizione. Tutte le mattine. Tutti i giorni.


Lo chef Riccardo Gaspari - Le foto sono di Stefania Giorgi

Mucche al pascolo a El Brite de Larieto, a Cortina d'Ampezzo

Giuliana e Flavio, i genitori di Riccardo

Il burro del Piccolo Brite

Le uova sono sempre freschissime

Le caciotte del Piccolo Brite

Riccardo, Ludovica e le loro bimbe

Grazie alla Brite Mobile, Riccardo cucina anche ad alta quota

Un racconto di boschi e di silenzi, di cieli e di montagne, di profumi e di materia. Di latte, yogurt, burro e formaggi. Che prendono forma nel vicino caseificio, il Piccolo Brite: dalla caciotta Luppollotta (lasciata a riposo nella birra e nel pane) alla Fienosa, da quella al pepe rosa sino al particolare Rozes. Non trascurando una new entry: la mozzarella. Formaggi da acquistare e da assaggiare: negli ambienti vestiti di legno dell’agriturismo, anche interpretati in gnocchi, gnocchetti, casunziei e canederli d’autore. Insieme alle carni e ai salumi. Mentre è al SanBrite - in un fienile ristrutturato, accanto alla bottega dei formaggi - che Riccardo narra la sua colta agricucina. Iper alpina. Iper dolomitica. Iper genuina.  

 



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INDICE

Marina Orlandi e l'urbe ferrarese

Nuove metamorfosi

Nicola Olivieri: il gioco delle parti

Il Razionalismo docet

Alessandro Cenedese: la legge dei grandi numeri

Una vacanza fra terra e cielo

I Pancini: tradizione in evoluzione

Urbano vs rurale

Davide Lucian: incontro di culture

Inedite chiavi di lettura

Massimo Pica: dire, fare, sognare

Agonismo, non antagonismo

Arrigoni & Basso: lievitano idee

Connessioni curiose

Antonio Polzella: terra, acqua e fuoco

Sea & The City

Giacomo Devoto: dall’Alpe alle Apuane

Fieno e Fascino

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Info | +39 0429 649150 | Map

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INDICE

Marina Orlandi e l'urbe ferrarese

Nuove metamorfosi

Nicola Olivieri: il gioco delle parti

Il Razionalismo docet

Alessandro Cenedese: la legge dei grandi numeri

Una vacanza fra terra e cielo

I Pancini: tradizione in evoluzione

Urbano vs rurale

Davide Lucian: incontro di culture

Inedite chiavi di lettura

Massimo Pica: dire, fare, sognare

Agonismo, non antagonismo

Arrigoni & Basso: lievitano idee

Connessioni curiose

Antonio Polzella: terra, acqua e fuoco

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integrazione.

FUORI IL PROSSIMO
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Cristina Viggè

2020-04-26T13:19:44+02:00

#dilloconpetra   Partecipa al sondaggio con 1 click 

 

Contiene un’intenzione, uno slancio, una tensione. Alla perfezione. La parola integrazione porta con sé un obiettivo positivo, propositivo e costruttivo: rendere intero, pieno e completo ciò che è difettoso, carente, lacunoso, incompiuto, manchevole di una parte. L’integrazione presuppone una mancanza. Che va colmata. Come? Non certo assimilando, assorbendo o incorporando una parte nell’altra. Bensì facendo incontrare le parti, nella condivisione di un medesimo contesto sociale. Nel rispetto di precise norme, regole e doveri, ma anche nel rispetto dei diritti e delle identità culturali, sociali e religiose delle parti. Basti pensare a una delle più esplicite negazioni dell’integrazione della storia: l’apartheid - in afrikaans “separazione” -, politica di segregazione razziale attuata nell’allora Unione Sudafricana.

Per meglio capire il concetto potrebbe concorrere la definizione che l’enciclopedia Treccani dedica all’integrazione nella fisiologia del sistema nervoso. Ossia: “la coordinazione e la confluenza di più attività elementari in un’attività complessa”. Traduzione: l’atteggiamento partecipativo dell’uomo, pronto ad agire e a interagire nel bene comune e nell’ambito di un consenso comune.

L’integrazione è anche una delle parole chiave adottate dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta dall’Onu. All’interno dell’obiettivo numero dieci, uno dei “traguardi” mira proprio a “potenziare e promuovere l'inclusione sociale, economica e politica di tutti, a prescindere da età, sesso, disabilità, razza, etnia, origine, religione, status economico o altro”. Nell’intento di eliminare ogni tipo di disuguaglianza dentro e fra le nazioni.

Questo momento di reclusione ha indubbiamente portato una frammentazione sociale e alla negazione di una socializzazione intesa come condivisione di un medesimo habitat. Ma forse ha portato a nuove formule di integrazione familiare e di armonizzazione nel medesimo nucleo abitativo. Una cosa è certa: dovremo tutti essere pronti a reintegrarci socialmente nel rispetto di nuovi dettami, in primis il social distancing. La sfida? È quella di trovare nuovi equilibri costruttivi.

 

Cristina Viggè
2020-04-27T17:19:25+02:00

Marina Orlandi a Sigep 2020 - Foto di Paolo Terlizzi

Marina Orlandi: Ferrara nel cuore

Per tutti lei è Mary. E la sua socia Giò. “Sì, siamo in due a guidare la pizzeria. Due donne. Determinate e ostinate. E con due caratteri completamente diversi. Al punto che è già una mission integrarci l’una con l’altra. Ma abbiamo una cosa in comune, che ci lega saldamente: noi non molliamo mai. Magari ci ammacchiamo, ma non molliamo”, dichiara Marina Orlandi, che con Giovanna Baratella porta avanti l’avventura di Slurp, nel cuore salottiero di Ferrara. “Fra noi c’è molta empatia. Virtù che ci ha permesso di costruire tutto il nostro progetto. Anzi, persino di allargarci. Integrando la pizzeria con nuovi posti e nuovi spazi”, continua Mary. “E poi c’è la bella integrazione con la nostra città. Dopo un inizio un po’ difficoltoso, ora dialoghiamo apertamente con lei e con i nostri concittadini. Facendo rete con i locali vicini”.



Riprese a cura di Marco Gallocchio nello stand di Petra - Molino Quaglia al Sigep 2020 - Rimini


Ed è proprio nel nome di Ferrara e per Ferrara che Marina ha deciso di reagire in questo momento complesso. “Al principio della pandemia ho sofferto. Ho accusato il colpo. Ma ora sto cambiando. E mi sono detta: se dobbiamo ricominciare, dobbiamo farlo con le persone di questa città”, continua lei. Felicissima dei molteplici messaggi d’affetto e stima ricevuti grazie a qualche consegna a domicilio. “Inoltre io e Giovanna abbiamo avuto tanta comprensione da parte del proprietario dell’immobile. E questo ci ha aiutate a continuare”. Insomma, l'elegante urbe estense risponde. E Mary e Giò ricambiamo, valorizzando le saporite specialità ferraresi ed emiliano-romagnole. Dai pinzini (noti anche come crescentine o gnocco fritto) alle tigelle, sino a sua maestà la salama da sugo. Messa mirabilmente sulla pizza. Femminilità, dunque. Come sensibilità, passione, caparbietà e volontà. Anche di far parte di un gruppo dinamico quale Donne di Pizza Donne di Cuore. Capace di integrare sette donne imprenditrici, provenienti da territori differenti, ma unite in un comune progetto di solidarietà e umanità.


La pizzeria Slurp - Da Mary e Giò riaprirà a Ferrara. Intanto Marina ci propone la ricetta dei suoi pinzini fritti o al forno. Perfetti da abbinare a culatello o squacquerone.


❓Riusciremo ad accettare una città che cambia❓
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Cristina Viggè
2020-04-27T17:49:16+02:00

Foto di Frank Winkler da Pixabay

Leggi l'articolo su corriere.it

Sapremo essere camaleonti? 

Mascherine. Distanziamento. Autocertificazione. Spostamenti limitati. Mezzi pubblici regolamentati. Sì all’asporto per bar e ristoranti, ma divieto assoluto per cinema, teatri e concerti. Pone ancora moltissimi diktat il decreto del presidente del consiglio dei ministri del 26 aprile. Dettami che, dal 4 maggio - meglio conosciuta come la fase 2 -, entreranno in vigore e muteranno la muscolatura delle città, la vita stessa delle città, il rapporto fra noi e la città. Sì, perché se fino ad ora questo link è stato negato, reclusi nel nostro ambiente familiare, la graduale ripartenza ci metterà di fronte a nuove forme di convivenza urbana. A un nuovo tipo di habitat e tessuto urbano. Fatto di ritmi più lenti e di orari differenti. Di luoghi aperti e di altri ancora chiusi. Di spazi accessibili e di altri in cui è vietato l’ingresso. Cambierà persino la nostra percezione della città. Che non sarà più lontana e distante, come durante la quarantena. Prima lei se ne stava là, fuori dalla finestra. Quasi oggetto del desiderio. Ora, finalmente la potremo toccare. Ma intanto lei avrà cambiato pelle. E noi? Dovremo essere novelli camaleonti.

Partecipa al sondaggio.

Cristina Viggè
2020-05-07T15:32:29+02:00

Nicola Olivieri a Sigep 2019 - Foto di Enrica Guariento

Nicola Olivieri: in the name of flour

“Sull’e-shop abbiamo spinto l’acceleratore. Certo, era già parecchio utilizzato. E noi lo abbiamo potenziato, organizzandoci ancora meglio. Basti pensare che a Pasqua eravamo in quattro al telefono per prendere le prenotazioni”, racconta Nicola Olivieri. Che con tutta la famiglia guida una realtà quale Olivieri 1882, ad Arzignano, in terra vicentina. Sì, 1882, come l’anno d’avvio dell’attività, grazie al trisavolo Luigi. Quando web, social e hashtag erano parole aliene. Eppure? Il marchio Olivieri ha saputo adeguarsi ai tempi. Evolvendosi, senza tradire la tradizione. Lanciando un canale virtuale, senza perdere la connessione col reale. Questione di integrazione, di congiunzione e di salda relazione. Fra materia e immaginario. Contesto fisico e spazio mentale. Offline e online. Dove le Colombe hanno avuto la possibilità di volare, giungendo non solo in tutta Italia, me pure in Francia, Germania, Regno Unito, States, Nuova Zelanda e Australia. Un vero successo. Che ha permesso di raccogliere una cospicua somma di denaro da devolvere in beneficienza agli ospedali San Bortolo di Vicenza e Cazzavillan di Arzignano: settemila euro, a cui gli Olivieri ne hanno aggiunti tremila. Giusto per raggiungere la quota tonda di 10mila.


Il bauletto by Olivieri 1882, proposto anche nell'e-shop

La collection di Bauletti by Olivieri 1882: classico; alle amarene, all'albicocca e caramello salato; alle pere e cioccolato; al cioccolato bianco e frutti di bosco; e ai tre cioccolati. Inoltre sono disponibili nelle trilogie tematiche: Delizia, Estivo, Goloso e Gourmet


E ora? Via che si continua a fare, proponendo delivery e takeaway e alimentando l’attivissimo e-commerce e rispondendo alle innumerevoli richieste. “Abbiamo già iniziato con i nostri Bauletti. Li presentiamo in sei gusti. Sono estremamente soffici, digeribili, perfetti per tutti i giorni. A colazione o a merenda”, continua il giovane Nicola. Che con i lievitati ci sa decisamente fare. Protagonisti di una food hall di moderna concezione. Un forno contemporaneo, in cui la produzione giornaliera interseca quella della sera. Un open space di 1.200 metri quadrati nei quali convivono, dialogano, si intersecano e interagiscono laboratorio, pasticceria, caffetteria, gelateria, panificio e pizzeria con cucina, focalizzata sulla pasta fresca homemade. In un’ideale (ma non utopica) circolarità creativa. Fedele al mantra “in the name of flour”.  


Il forno contemporaneo Olivieri 1882 di Nicola Olivieri ha riaperto ad Arzignano (Vicenza). Intanto Nicola ci propone la ricetta del suo pane con lievito madre e Petra 9.


❓Raggiungeremo l’armonia fra le parti❓
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Cristina Viggè
2020-05-07T16:00:01+02:00

Foto di Tegula da Pixabay

Leggi l'articolo su mixerplanet.com

Il modello Bahuaus ci potrà aiutare?

Compie 101 anni. Ma la sua idea e il suo messaggio sono modernissimi. E applicabilissimi all’oggi. Correva infatti il primo aprile 1919 quando nasceva a Weimar (per poi spostarsi a Dessau e infine e Berlino) la Bahuaus, illuminata e visionaria scuola d’arte e design che ha segnato un’epoca. E che continua a elargire spunti innovativi. Un luogo fisico, colmo di immaginazione. Una vera istituzione. Un sostantivo femminile e maschile, se inteso anche come stile e corrente di pensiero. Fedele ai principi dell’essenzialità, del minimalismo, dell’uso razionale e funzionale di tecniche e materiali. Per capire? Basta osservare l’edificio stesso dell’istituto, nonché i prototipi abitativi - come la Haus am Horn - firmati dal primo direttore: Walter Gropius. Residenze illuminate da una nuova forma di architettura. Più libera, pura, dinamica. Nutrita dalla luce, dalla leggerezza, dal rigore, dalla geometria e dalla bellezza. Un’architettura capace di rinunciare a mura portanti, per privilegiare pilastri e divisori più scattanti. Nel segno della flessibilità e della modularità. Perché è lì il punto. Creare forme in grado di adattarsi al futuro. Cambiando, aumentando di dimensione e sintonizzandosi su una nuova organizzazione degli spazi. Pronti a intersecarsi, a dialogare e a interagire. Fra loro e con l’esterno. L’esempio forse più noto è Casa Farnsworth, posizionata in un bosco, a un centinaio di chilometri da Chicago, e targata Ludwig Mies van der Rohe. Sì, il genio del “less is more”. Ma anche il fautore della fluida intimità e del liquido scambio fra dentro e fuori, costruzione e natura, solidità e trasparenza. Un bell’esempio. Da prendere a modello: per la vita e per la ripartenza di tutte le attività. Da intendere in maniera duttile, plasmabile e trasformabile. Anche in altro. Così, in una visione globale e circolare, l’online potrà convivere con l’offline; delivery e takeaway - per dirla con la ristorazione - connettersi con una nuova riorganizzazione della sala; e nuovi progetti ancorarsi al resto di realtà già ben radicate. Ecco, forse seguendo il fil rouge della coerenza, dell’ordine e di una logica in perenne evoluzione, potremmo trovare soluzioni da applicare al futuro prossimo venturo. Bahuaus insegna.

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Cristina Viggè
2020-05-13T15:45:20+02:00

Alessandro Cenedese a Sigep 2019 - Foto di Enrica Guariento

Alessandro Cenedese: cavalcando l’alta qualità

Prima giocava a rugby. Ora fa l’imprenditore. Ma è riuscito a trasferire nel suo mestiere tattica, potere decisionale, forza di squadra e capacità di andare sempre in meta. Integrando determinazione personale e visione corale. Lui è Alessandro Cenedese e con la famiglia gestisce la ristorazione interna di una serie di campeggi-villaggi d’eccellenza nella zona dell’Alto Adriatico. Per la maggior parte dislocati lungo quel litorale-penisola che va da Jesolo a Venezia, meglio noto come Parco Turistico Cavallino Treporti. Un ecosistema di grande valore, nutrito da spiagge dorate, orizzonti marini, paesaggi lagunari e orti rigogliosi. “Mio padre Angelo ormai conta una cinquantina di stagioni all’attivo”, dice orgoglioso Alessandro. “Noi seguiamo solo camping a quattro e a cinque stelle. E quest'anno abbiamo aggiunto al nostro poker d’assi un quinto tassello: il ristorante PiacerMio del Camping Village Marina di Venezia”. Gli altri? Eccoli: il ristorante Vanghetto (di ben duemila metri quadrati), nel cuore del Centro Vacanze Pra’ delle Torri (l’unico a Caorle); il ristorante-pizzeria Al Lido, all’interno del Garden Paradiso; il ristorante-pizzeria Dei Fiori, nell’omonimo camping; nonché il ristorante del Mediterraneo. Che alla riapertura conoscerà un'importante novità. “Sì, io dopo anni alle redini della parte food & beverage Dei Fiori, mi sposterò al Mediterraneo. Stiamo riqualificando tutta la zona delle Terrazze. Un’oasi lussuosa, che prevede il ristorante Il Cappero e persino una piscina a sfioro”.


Riprese a cura di Andrea Tadioli nello stand di Petra - Molino Quaglia a Sigep 2029



Ristoranti diversi. Coerentemente integrati con il tessuto sociale di ciascun camping-village. A sua volta inserito empaticamente in un territorio dinamico: un tempo caratterizzato da una forte vocazione rurale - basti pensare che un tempo qui si allevavano i cavalli per l’Impero Romano - e oggi divenuto un vero punto di riferimento per un turismo sostenibile ed en plein air. “A presidiare ogni ristorante c’è un nostro socio. Così da avere il massimo controllo. E poi cerchiamo sempre di rendere onore al made in Italy e ai prodotti locali”, continua Alessandro. Il che significa le crastraure di Sant’Erasmo, le verdure del Cavallino, le moeche, le seppioline, i gò della Laguna, i pesci azzurri. Il tutto sposando la legge dei grandi numeri, la filosofia dell’alta qualità e una proposta super variegata. Nel segno della flessibilità e della modularità. Che significa pure valorizzazione delle risorse umane e attenzione all'ospite. Tradizione e tecnologia. Sicurezza, riservatezza, condivisione ed entusiasmo. “Riusciamo davvero a coprire ogni aspetto del food. Perché la nostra proposta è all day long. E va dal cappuccino al cocktail, dalla pizza alla cucina, non dimenticando il takeaway. Per noi è la prassi. Siamo abituati a distribuire brochure in diecimila copie”, prosegue Cenedese. Prontissimo alla ripartenza.  


Il ristorante-pizzeria Dei Fiori e tutti gli altri gestiti dalla Società Interna Campeggi riapriranno a Cavallino-Treporti e a Caorle. Intanto, Manuel Barella, alla regia degli impasti, ci propone la ricetta per un aperitivo sfizioso: Tocama, ossia un pane da intingere in una salsina al tonno, carote e maionese.


❓Vacanze en plein air: una possibile soluzione❓
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Cristina Viggè
2020-05-13T16:19:34+02:00

Parco Turistico Cavallino Treporti - Foto da @VisitCavallino

Leggi l'articolo su pleinair.it

Estate: più vacanze all’aria aperta?

“E la chiamano estate, questa estate senza te […]. Il profumo del mare, non lo sento, non c’è più”, cantava Bruno Martino, interpretando un testo scritto da Franco Califano e Laura Zanin. Parole che tornano alla mente, pensando a un futuro prossimo venturo, in cui la tanto sognata vacanza è minata da distanziamenti, iper sanificazioni, limitazioni e mille incertezze. Ma forse la soluzione sta lì, davanti ai nostri occhi. Se ben sappiamo guardare. Un po’ come lo sono stati e-commerce, delivery e takeaway per la ristorazione, all’inizio non presi troppo in considerazione. Ecco, forse una vacanza auspicabile - e pure ecosostenibile - può esser quella en plein air. In un villaggio, in un campeggio ben attrezzato. Dove tutto è già pensato e studiato all’insegna della massima sicurezza, della pulizia e della riservatezza. Del resto, se ci pensiamo bene, sono proprio l’igiene, gli ampi spazi, il verde e una salutare vita all’aria aperta a rappresentare il plus valore di un camping. Icona di libertà ma anche di ragionata organizzazione. Un luogo dove la privacy si accorda perfettamente con la condivisione e il non fare sposa la possibilità di impegnarsi in variegate attività. In genere a contatto con la natura, col paesaggio e col territorio. Che diviene arte e parte integrante della vacanza. Intanto? Federalberghi, Confindustria alberghi e Assohotel firmano il protocollo “Accoglienza Sicura”, per una ricettività in totale serenità. Della serie, anche l’hôtellerie sta varando le giuste misure e linee guida. E poi, diciamolo: relais, resort e alberghi diffusi offrono un ampio raggio d’azione per ogni ospite. E un room service sempre pronto all’azione. E per chi ama lo spirito rurale? È ideale l’agriturismo, meglio ancora se suddiviso in appartamenti indipendenti.

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Cristina Viggè
2020-05-20T15:08:57+02:00

Federica, Renato e Riccardo Pancini

Renato, Riccardo e Federica Pancini: visione intergenerazionale

“Il prossimo anno Al Foghèr compirà trentacinque anni. Mentre il prossimo luglio festeggeremo il primo anniversario del nostro Al Foghèr Classic”, spiega orgoglioso Renato Pancini, guardando ottimista al futuro. Renato, che con i figli Riccardo e Federica guida ben due pizzerie in quel di Arezzo. In pieno centro storico l’insegna più giovane, caratterizzata da un design iper moderno, da nuance tortora e da un mood dinamico. Appena fuori città, in località Ponte alla Chiassa, invece il locale storico, aperto nel 1986 proprio da Renato. Segni particolari? Un look minimale ed essenziale, fatto di dettagli e di uno stile crossover. Fra ampi spazi, angolo impasti-cotture ben in vista, veranda coperta in legno, zona esterna e persino un orticello. Il tutto vicino alla campagna e poco distante dall’Arno. Anzi, dal punto in cui il fiume “torce il muso” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, Canto XIV) agli aretini, dirigendosi verso Firenze. Presente e passato. Modernità e storia. Integrate perfettamente in una coerente e circolare visione imprenditoriale. In cui ognuno riveste un ruolo definito. Renato alla regia (ma lui è pure founder e presidente dell'Associazione Pizzerie Aretine di Confcommercio); il giovanissimo Riccardo (annata 1996 e una laurea all’Università della Pizza di Vighizzolo d’Este) all’elaborazione degli impasti; e Federica (millesimo 1986) alla direzione della sala. Il tutto seguendo una filosofia ben precisa, concentrata sulla pizza. E solo sulla pizza.  


Riprese a cura di Andrea Tadioli presso lo stand di Petra - Molino Quaglia a Sigep 2019


Tre generazioni a confronto e in perenne incontro. Tre generazioni che si supportano in un lavoro nutrito dal fuoco - elemento presente nel logo - della passione e alimentato dalla ricerca. Tre generazioni sintonizzate sulla frequenza dell’eccellenza. Il che significa sentirsi parte di un progetto di filiera. In primis toscana. Basta connettersi con la loro pagina Facebook per leggere: “In questo delicato momento è importante sostenere i produttori locali. Gli ingredienti delle nostre pizze sono espressione del nostro territorio e provengono da contadini e produttori che, quotidianamente, ci consegnano le loro primizie di stagione e a chilometro zero”. Sì, integrare territorio e impasti è possibile. Come accade nella “Terre d’Arezzo”, tra fiordilatte, pancetta affumicata, pepe, pecorino e tartufo fresco. Che finisce pure su quella “Del Sultano”, preziosa di burrata, salmone affumicato, pistilli di zafferano e oro gourmet. Per non parlare delle pizze dessert. Qui un vero cult. Farcite con frutta fresca, creme e cioccolato. A conferma della massima sintonia anche fra dolce e salato.


Le pizzerie Al Foghèr e Al Foghèr Classic di Renato, Riccardo e Federica Pancini stanno per riaprire ad Arezzo. Intanto Riccardo ci propone la ricetta della sua pizza in teglia in versione casalinga.


❓Come ripenseremo il nostro habitat❓
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Cristina Viggè
2020-05-20T15:28:58+02:00

Foto di David Mark da Pixabay

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Città e campagna: convivenza possibile?

Sahara Square. Tundratown. Little Rodentia. Rainforest District. Bunny Burrows. Sono i quartieri-habitat di Zootropolis, la città immaginaria immaginata dal celebre cartoon firmato Walt Disney Animation Studios. Una polis-utopia, capace di concentrare tutti i climi, le aree e gli animali della Terra. Ma anche una metropoli che stimola qualche riflessione. In primis su una nuova visione del rapporto fra urbe e campagna. Due habitat diversi, ma spesso vicini e portati a dialogare fra loro. Meglio se in maniera positiva e costruttiva. Come esorta a fare l’undicesimo obiettivo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta dalle Nazioni Unite. In uno dei target (o traguardi) del goal 11, infatti, l’invito è quello di “Sostenere rapporti economici, sociali e ambientali positivi tra le zone urbane, periurbane e rurali, rafforzando la pianificazione dello sviluppo nazionale e regionale”. In un’ottica di integrazione e inclusione, e non di separazione, dei differenti humus urbani e agresti. Il senso? È quello della complementarietà delle funzioni e delle competenze. Della serie, la campagna deve continuare far la campagna. E la città non deve per questo tradire il suo credo. Ma il tutto in una prospettiva di interscambio concreto, utile e proficuo. “Per proteggere e salvaguardare il patrimonio culturale e naturale del mondo”.

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Cristina Viggè
2020-05-26T17:12:44+02:00

Davide Lucian a Sigep 2019 - Foto di Enrica Guariento

Davide Lucian: l’autoctono e l’esotico

“Questa torta l’ho voluta chiamare Incontro. Ed è dedicata a mio padre Donato. Perché a lui è sempre piaciuto il binomio nocciola e cioccolato. In realtà è l’upgrade di un dolce che facevo già, ma in maniera più complicata. Ora ho preferito semplificare il tutto”, racconta Davide Lucian, ufficializzando l’ingresso di una nuova delizia. Davide: classe 1983 e radici affondate nella Valle di Primiero. In quella parte orientale del Trentino che se ne sta ai piedi delle Dolomiti. Tuffata in un paesaggio incantevole. Dove lui è tornato, dopo aver inanellato il gotha dell’hôtellerie di lusso - dallo Splendido di Portofino al Pellicano di Porto Ercole, da Villa San Michele a Fiesole sino a Palazzo Bauer di Venezia. Non facendosi mancare una tappa oltremanica. “Dopo l’alberghiero mi sono specializzato nella preparazione dei dessert nei più grandi alberghi. Ma alla fine ho sentito il richiamo della mia terra. E sono ritornato”, spiega Davide. Che dieci anni fa apre una pasticceria a San Martino di Castrozza - che c’è sempre (ma in un’altra sede) ed è più cioccolato oriented - e nel 2016 inaugura a Mezzano il suo quartier generale. Con tanto di laboratorio. “Si tratta di uno spazio di 250 metri quadrati. Settanta sono dedicati al negozio, il resto è tutto lab. Ma non è ancora grande abbastanza”, continua l’artigiano. Che ha dovuto e saputo integrare l’estro e la fantasia della pasticceria da ristorazione con il rigore e le regole della pasticceria più tradizionale. Passando dal piatto al banco. “In realtà sono in guerra da dieci anni”, dichiara. “Ma alla fine sono riuscito a mettere insieme le due cose. A far sì che una completasse l’altra. Anche se nella pasticceria tradizionale prevale più la tecnica, mentre in quella da ristorazione tutto è concentrato sul gusto”.

Riprese a cura di Andrea Tadioli presso lo stand di Petra - Molino Quaglia a Sigep 2019


Una storia fatta di incontri quella di Davide. Di incontro con il suo amato territorio. E di incontri con altri territori. “La mia compagna è originaria di Goiânia, vicino a Brasilia. E ogni anno andiamo in Brasile”, racconta il pasticcere. Che ha integrato nel suo bagaglio culturale anche passion fruit, ananas e cocco. “Con questi ultimi due frutti preparo una pastina a base frolla, dedicata a mia mamma Donatella”, precisa orgoglioso lui. Che rende massimo onore anche a Mezzano, uno dei Borghi più Belli d’Italia. Facente parte del Parco Naturale di Paneveggio - Pale di San Martino. Così, all’interno di un progetto comunale quale “Mezzano Romantica”, ha messo a punto i biscotti “Romantici”, preziosi di fiocchi di mais, garnetole (mirtilli rossi), caréz (cumino selvatico) e botìro di Primiero. Un Presidio Slow Food. Un burro di malga profumato e aromatico, dalle nuance floreali ed erbacee. Un vero concentrato di montagna. Presentato nel caratteristico stampo in legno intagliato. “Io lo uso nel panettone e nei grandi lievitati. È un prodotto eccezionale. E utilizzato a crudo è ancora più buono”.


La Pasticceria Lucian di Davide Lucian ha riaperto a Mezzano e riaprirà a San Martino di Castrozza (Trento). Inoltre Davide ci propone la ricetta della sua torta di noci e miele.


❓Impareremo ad accettare il “diverso”❓
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Cristina Viggè
2020-05-26T17:38:29+02:00

Dall'orto biodinamico del ristorante La Cru - Villa Balis Crema

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Sapremo aprire nuovi “canali”?

Consegne a domicilio. Asporto. E-shop. E persino e-learning. Il lockdown ha aperto nuove finestre. Offerto nuove possibilità. Non certo a breve termine. Anzi, molti sono i ristoratori decisi a mantenere (almeno per un po’) i canali paralleli. Nel nome dell'integrazione fra attività a differenti velocità. A Milano, Andrea Berton lancia il suo poker d’assi: quattro box lunch & dinner (ciascuno composto da quattro piatti) pensati per takeaway e delivery. Nondimeno Wicky Priyan ha voluto declinare la sua raffinatissima Innovative Japanise Cousine anche in versione consegna o porto via. Non tradendo il fining dining e pensando a una futuribile zona bistrot. A Roma, Anthony Genovese e Mattia Zappile non hanno tradito Il Pagliaccio, dando forma a Turnè, un delivery di altissima qualità che ha le carte in regola per trasformarsi in una realtà a lungo termine. Mentre a Lavello, in provincia di Potenza, l’Antica Cantina Forentum darà presto forma al Forentum Sushi Bar, crasi nipponico-lucana in grado di valorizzare tecniche giapponesi e Presidi Slow Food locali e internazionali. “In questo periodo di lockdown non ci siamo mai fermati, anzi, abbiamo avuto modo di capire meglio le richieste dei nostri ospiti. Da qui l'idea di diversificare la nostra offerta” spiega lo chef patron Savino Di Noia.

L'orto biodinamico del ristorante La Cru, a Romagnano di Grezzana, nel Veronese


E poi? C’è anche chi, nel bel mezzo di un grande progetto, ne avvia un altro. Così fa infatti lo chef Giacomo Sacchetto, alla guida del ristorante La Cru, a Romagnano di Grezzana. In terra di Verona, nel cuore della Valpantena e ai piedi dei Monti Lessini. Ecco, nel pieno corso del restyling di Villa Maffei Medici Balis Crema - pronta a trasformarsi in un hotel di charme - Giacomo riapre gli spazi del ristorante, ora ospitati all’interno della Casa del Custode ma poi destinati a trasferirsi in una struttura di vetro e acciaio. Li apre al pubblico - con gli opportuni distanziamenti, nella massima sicurezza e con un QR code per la consultazione delle pietanze - e li amplifica pure. Grazie a un poker di gazebi posizionati in giardino, nonché due-tre tavoli con affaccio panoramico sulla valle. Una ripartenza che prende il nome di Re-Lab, battezzando una carta tutta nuova. Affiancata da due menu degustazione. Il tutto seguendo il fil rouge dell’orto biodinamico. Nel segno green della circolarità e della sostenibilità.


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Cristina Viggè
2020-06-15T16:18:44+02:00

Massimo Pica a Identità Golose 2019 - Foto di Thorsten Stobbe

Massimo Pica: insegnamento e allenamento

“Gli impegni? Forse ora sono molti più di prima. Perché sono concentrato su più fronti. Fisicamente e mentalmente”, svela Massimo Pica: millesimo 1985, radici nella salernitana Nocera Inferiore e un presente tutto milanese. Dove guida sia la pasticceria che porta il suo cognome - in via Ozanam 7 - sia la Pica Pastry School, in via Fortezza. Guarda caso. Visto che il maxi lab con corredo di aula-arena è una fortezza in tutti i sensi. Dislocata com’è su due piani, per un totale di 400 metri quadrati. “Ora mi sto dedicando soprattutto alle consulenze private. In genere one to one. Sto portando avanti corsi sulla gelateria, sui prodotti da forno e anche il cosiddetto cento ore, che va ad abbracciare tutti i rami della pasticceria”, precisa Massimo. Che continua a creare e pure a consegnare. E non solo rifornendo, come ormai fa da tempo, bar, locali e ristoranti cittadini. Ma anche arrivando at home.

Il croissant di Massimo Pica - Foto di Ioris Premoli

Le mini capresi di Massimo Pica - Foto di Ioris Premoli

Le forme della sfoglia secondo Massimo Pica - Foto di Ioris Premoli

La fondente creatività di Massimo Pica - Foto di Ioris Premoli

“Certo il delivery lo facciamo noi, in prima persona. Ora è molto richiesto nel weekend”, spiega il pastry chef. Che, sin dall’inizio, ha messo a punto un intero menu dedicato, capace di spaziare dal “Panciock” alla girella alla cannella, dalla pastiera alla caprese, dal babà in vasocottura al “Sorriso”, un lievitato da merenda prezioso di pesche semi candite. Non dimenticando di inanellare tutta la teoria dei croissant, anche in versione salata. E non trascurando il pane a lievito madre, il “Pan Pica Rustico” e le tagliatelle all’uovo. Dando così voce alla polifonia del Pica pensiero. Che va all’essenzialità, non rinunciando mai all’eleganza e alla ricercatezza. Fra linee minimali, curve sinuose e geometriche evoluzioni. Il suo libro Gusti Cromie Texture docet. Così come il suo mantra: “ricerca, innovazione, formazione”. Nel nome della massima integrazione.


Skizzo: dessert al piatto per la selezione italiana della Coupe du Monde de la Pâtisserie. Biscotto alla panna, namelaka alla cassata, croccantino al pistacchio, biancomangiare alle mandorle, ganache montata alla mandorla, glassa anidra mandorla e pistacchio, salsa agli agrumi, gelato alla ricotta e Strega e decoro in cioccolato agli agrumi - Foto di Ioris Premoli

Ma qualcosa bolle in pentola. “Stanno per partire i lavori per il nuovo locale, in piazzale Libia. Vorremmo essere pronti per la fine di settembre. Si chiamerà Pica Milano e sarà una pasticceria con bistrot. Tra fuori e dentro avremo duecento metri quadrati”, annuncia felice Massimo. Che dovrà affrontare un’altra grande sfida: la Coupe du Monde de la Pâtisserie, a Lione, il prossimo gennaio 2021. Visto che è proprio lui uno dei tre finalisti, per la categoria cioccolato (gli altri sono Andrea Restuccia per la categoria ghiaccio, e Lorenzo Puca per la categoria zucchero). “A partire da settembre è previsto l’allenamento. Sette giorni su sette. Dobbiamo fare come se fossimo in gara. Realizzare l’intero programma con tutte le prove a tempo. Del resto, più volte ripeti le pièce più sicurezza ti porti in competizione. E come se gareggiassi con l’olio santo in tasca”, ammette Pica. Che darà sicuramente il massimo. 


La pasticceria di Massimo Pica ha riaperto a Milano. E intanto Massimo ci propone la ricetta del suo babà in vasocottura.


❓Sapremo ripartire con una forma mentis vincente❓
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Cristina Viggè
2020-06-15T17:23:24+02:00

Foto di dan onaca da Pixabay

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Ritroveremo lo spirito olimpico?

“Possano la gioia e i buoni intenti amichevoli regnare, così che la torcia olimpica possa perseguire la sua via attraverso le ere, aumentando le comprensioni amichevoli fra le nazioni, per il bene di un’umanità sempre più entusiasta, più coraggiosa e più pura”. Queste le parole, ancora attualissime, di Pierre de Coubertin, il visionario barone - ma pure pedagogista e storico francese - fondatore delle Olimpiadi. O meglio, il rivoluzionario fautore della ripresa e della ripartenza dei Giochi Olimpici, tarati sull’epoca moderna. Correva infatti l’aprile 1896 quando il sacro fuoco tornò ad ardere ad Atene, riportando in auge un antico rituale - intitolato a Zeus e celebrato a Olimpia ogni quattro anni - andato perduto nel tempo. E facendo riemergere il valore e il senso della competizione, nel nome della forza, del coraggio, dell’incontro, del dialogo, del confronto e dell’integrazione fra Paesi e continenti diversi. Ritratti nei cinque cerchi colorati, fieri di intersecarsi fra loro. Come in un abbraccio solidale.

I tre finalisti italiani che parteciperanno alla Coupe du Monde de la Pâtisserie:
Lorenzo Puca, Andrea Restuccia e Massimo Pica


Agonismo, dunque. Non antagonismo. Un bel messaggio per tutti i popoli. Da rispolverare soprattutto ora, che il Covid ha bloccato i nastri di partenza delle Olimpiadi di Tokyo 2020, ufficialmente rimandate al 2021. Così come del resto gli Europei di calcio. La difficoltà? Per gli atleti sarà forse ritrovare la forma mentis vincente. Riprogrammare gli impegni. E integrarli con altri magari già presi. Perché talvolta il tempo è tiranno. Talaltra è invece un vantaggio. Dipende da come si affrontano e si guardano le cose. Massimo Pica, impegnato nella Coupe du Monde de la Pâtisserie nel gennaio 2021 (a Lione) sa bene cosa fare. Allenarsi, allenarsi, allenarsi. Concentrandosi in tutta serenità. Del resto, come insegna de Coubertain: “L’importante non è vincere ma partecipare”.  


Cristina Viggè
2020-06-24T14:51:22+02:00

Michele Basso e Alberto Arrigoni allo stand di Petra brindano con la Cuvée 1821 by Zonin

Arrigoni & Basso: il futuro è in fermento

Lo ripete. Quasi fosse un mantra: “Non ci si deve mai fermare. Non bisogna arrendersi. E non si molla niente”. Anzi: “Siamo impegnati in nuovi progetti”, dichiara orgoglioso Michele Basso. Che col socio Alberto ha dato vita, tre anni or sono, all’insegna che porta fiera i loro due cognomi: Arrigoni & Basso. In quel di Zero Branco, nella Marca Trevigiana. “Siamo una bella squadra. Perfettamente in sintonia. Con noi ci sono infatti anche i figli di Alberto, Filippo e Margherita, nonché la moglie Paola. Alberto si occupa degli impasti. È lui l’uomo con le mani nella farina. Io invece sono il jolly. Sto alla regia. Vado in sala, ma anche nella zona cucina e in quella pizzeria. Dove c’è bisogno mi sposto”, continua il dinamico ed energico Michele. Che ricorda le due grandi famiglie di pizze proposte: quella tonda e quella in pala. “D’estate un nostro cult è la pala con il magatello di vitello e la salsa tonnata. La carne la prendiamo da un macellaio locale. Una vera boutique. Appena fuori Treviso. Mentre il prosciutto cotto lo facciamo addirittura noi”, continua Basso.


Alberto Arrigoni - Foto di Thorsten Stobbe

Michele Basso - Foto di Thorsten Stobbe

Una proposta accurata e di alta qualità quella della pizzeria. Capace di valorizzare il territorio trevigiano e pure quello più lontano. Grazie all’utilizzo del capocollo di Martina Franca, della ’nduja di Spilinga, del fiordilatte, della burrata e dei pomodori pelati pugliesi, delle acciughe del Cantabrico, del gorgonzola dolce, della feta greca e delle olive di Calamata. Per un’offerta gastronomica dalle ampie vedute. Burger incluso. “Naturalmente con il pane fatto da noi”, precisa Michele. Puntualizzando la variegata proposta della casa. Che non trascura biscotti e lievitati dolci. Nel segno di una profonda conoscenza degli impasti. “Ora, per esempio, stiamo collaborando con una realtà di Roma. Sono in procinto di aprire e ci hanno chiamato. Sarà una consulenza continuativa”, svela felice Basso. Che con Arrigoni sta alzando notevolmente l’asticella. E non solo in Veneto. Dove un grosso progetto bolle in pentola.

Una delle pizze più fotografate di Arrigoni & Basso

“Prossimamente inaugureremo un altro locale. Sempre nel Trevigiano, ma dalla parte opposta. Quella che corre verso Pordenone. Fra Motta di Livenza e Annone Veneto. La location è fantastica. Prima era un agriturismo, ora lo stiamo trasformando in una pizzeria, con corredo di proposte di carne e pranzo della domenica. Si chiamerà Osteria della Pizza, e avrà pure undici camere. Il restyling in corso è di tipo conservativo, ovviamente. Lì c'erano tende, tovagliati pesanti e legno scuro. Noi vogliamo alleggerire un po'. Dare un’impronta nuova e fresca. Senza essere banali. Era il mio sogno nel cassetto. Tra l’altro, dietro passa una ciclabile e si può pensare a un bel discorso con le bike”. Sì, lievitano idee in casa Arrigoni & Basso.  


La pizzeria Arrigoni & Basso di Alberto Arrigoni e Michele Basso ha riaperto a Zero Branco (Treviso).


❓Come potremo evolverci❓
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Cristina Viggè
2020-06-24T16:00:53+02:00

La pizza Gaggan by Antonio Pappalardo e Gaggan Anand - Foto di aromi.group

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Quali possibili sinergie per il futuro?

In marketing lo chiamano co-branding. Due griffe si uniscono per presentare un prodotto, portando avanti un comune progetto. In perfetta sinergia e in armoniosa sintonia di intenti e obiettivi. Accade anche nel food. Certo. Basti pensare a Carlo Cracco e alla patatine San Carlo. Basti pensare a Gualtiero Marchesi e a Joe Bastianich e alle loro creazioni per McDonald’s. Basti pensare alla linea “Stellati” della maison Algida, che dopo il cornetto firmato da Isabella Potì manda in scena la summer e limited edition targata dal pastry chef Andrea Tortora. Ma a ben guardare persino le tanto celebrate cene a quattro, sei, otto, dieci e dodici mani rappresentano una sorta di co-branding fra più “cucine”, ciascuna con la propria indiscutibile identità. Sinergie, dunque. Possibili e auspicabili. Nuove connessioni, nuove interazioni, nuove relazioni. Culinarie, culturali, artistiche che siano. Ben vengano. Soprattutto quando integrano due visioni distanti. Anche mentalmente e fisicamente. Come è accaduto fra lo chef indiano super premiato Gaggan Anand (originario di Calcutta, ma di stanza a Bangkok) e il pizzaiolo Antonio Pappalardo, patron della Cascina dei Sapori di Rezzato, nel Bresciano (che intanto sta progettando l’apertura di una nuova insegna nel cuore della Leonessa).


Antonio Pappalardo, patron della Cascina dei Sapori di Rezzato - Foto di aromi.group

“Sono stato nel suo ristorante a Bangkok sei anni fa e ho sempre ammirato la sua idea di cucina, ma purtroppo non ho avuto modo di conoscerlo di persona. Così gli ho scritto e, nel corso degli anni, mi ha sempre risposto. Sino ad oggi, quando mi ha dato la sua disponibilità per questa iniziativa. Gaggan ama la pizza, così si è reso molto propositivo, dando gli input per gli ingredienti e su come valorizzarli al meglio. Il mio lavoro è stato di rendere fattibile la sua realizzazione e creare un perfetto equilibrio fra il topping e l’impasto”, spiega Antonio. Che, fino al 15 luglio, propone a cena (per il consumo placé e non da asporto) la pizza Gaggan: una tonda al piatto preziosa di patate, gorgonzola dolce, peperoncino fresco, olio al rosmarino, pesche, acciughe e pinoli. In carta? Sarà riconoscibilissima alla prima occhiata, presentata con le emoticons al posto degli ingredienti. Proprio come fa mister Anand nel suo ristorante. Un modo per ringraziare la fedele clientela, facendola viaggiare con la fantasia... e il palato. 


In carta, la pizza Gaggan esprime i propri ingredienti attraverso le emoticons

Intanto? Si concretizzano altre inedite sinergie. Fra due eccellenze italiane. L’una vicentina e l’altra torinese. Dalle competenze naturalmente differenti: Zonin, storica maison vitivinicola, all’alba del suo bicentenario; e Pininfarina, notissimo atelier di design. Mission? Rileggere la bottiglia della Cuvée 1821, una vera icona della casa veneta. Un Prosecco dal profilo unico, riconoscibile, contemporaneo. Meritevole di un abito ad hoc. Ambasciatore e sintesi di memoria e di futuro, di storia e di modernità, di materia e di immaginario, di autenticità italiana e di respiro internazionale. Ecco allora una bottiglia-scrigno caratterizzata da una retta verticale e precisa. A indicare l’expertise meticolosa, puntuale, solida e concreta. Mentre il segno circolare lascia presagire a un’apertura globale, nutrita dal senso umano della socializzazione e della condivisione. 


La Cuvée 1821 di Zonin ha un nuovo abito: firmato Pininfarina

“Un ulteriore, importantissimo passo, mentre Zonin si appresta a compiere 200 anni. È un onore condividere questo traguardo insieme. Una firma che ha contribuito a scrivere la storia del made in Italy. E ancor più attraverso Cuvée 1821, che riassume l’anima e lo spirito con cui la mia famiglia da sempre interpreta il ruolo del vino italiano nel mondo. Ci apprestiamo ad affrontare il 2021 con 200 anni di tradizione, ma con immutata passione e rinnovato entusiasmo”, dichiara Francesco Zonin, vice presidente di Zonin1821. Che ad oggi conta duemila ettari di superficie vitata, un team di 32 enologi e agronomi, nonché una decina di tenute, dislocate nelle sette regioni italiane a più alta vocazione wine. A cui si aggiungono la tenuta americana Barbousville Vineyards in Virginia e quella cilena di Dos Almas.

 


Cristina Viggè
2020-07-06T12:50:41+02:00

Antonio Polzella al Sigep 2020 - Foto di Paolo Terlizzi

Antonio Polzella: pizzaiolo, oste e contadino

“Siamo ripartiti bene. E il residence sta funzionando. Anche se quest’anno il turismo è più mordi e fuggi. Persino le pizze richieste sono più semplici. Gli ospito ordinano soprattutto Marinare e Margherite. Tutto il mood è più easy. Così ho preferito fare un passo indietro. Pure per i prezzi ho adottato una politica diversa. Tenendo un profilo più basso”, racconta Antonio Polzella, che con la famiglia guida una realtà poliedrica come La Ventola. In quel di Vada, sul litorale livornese, lungo la Costa degli Etruschi. Ristorante, pizzeria, residence e hotel (con piscina) incorniciati da una pineta selvaggia, in equilibrio fra il mare e i profumi della macchia mediterranea. Un autentico buen retiro. Costruito, passo dopo passo, dai genitori di Antonio: Giovanni e Lina, arrivati dal Molise agli inizi degli anni Sessanta. Agricoltori e braccianti, con le mani nella terra ma con lo sguardo puntato avanti. Al punto da trasformare l’azienda rurale prima in ristorante (nel 1975) e successivamente in uno spazio d’accoglienza tout court (nel 1999), con camere e appartamenti. Non dimenticando la ventola. Anzi, eleggendola e icona e logo del luogo. Quella ventola sul tetto che, animata dal vento e collegata a una dinamo, regalava l’energia necessaria per illuminare casa Polzella. Che oggi accoglie anche Marilena e Marta (la sorella e la moglie di Antonio), Davide (il marito di Marilena) e i piccoli Giacomo, Mirea e Alyssa.


Antonio Polzella: pizzaiolo e coltivatore

Mare, pineta, campagna. Certo. Antonio non ha dimenticato la campagna. “Abbiamo venti ettari di terreno. Di cui dieci destinati al grano. Quest’anno raccoglieremo verna e gentil rosso”, precisa orgoglioso il pizzaiolo-coltivatore. Ricordando anche le duemila piante d’ulivo nelle vicinissime terre di Collemezzano. Fiere di donare un olio battezzato Hinθial, come “anima” in lingua etrusca. “Inoltre ho realizzato ottomila metri quadrati di orto. Così avremo tutte le verdure e le erbe aromatiche per la cucina e per le pizze. Ma anche cocomeri e meloni. Mi piacerebbe dedicare una pizza vegetariana ai miei genitori. Che mi stanno dando una grande mano anche in questa nuova impresa”.

La Ventola: residence, hotel, ristorante e pizzeria a Vada, Livorno

Intanto? Antonio non si ferma. E mette in campo pure il picnic. Allestendo un’area dedicata, proprio davanti al ristorante. “Ho messo tavoloni e tavolini, con corredo di tovaglie a quadrettoni. Quelle che avevamo quando aprimmo negli anni Settanta. È un po’ come tornare alle origini. Ma la proposta sta piacendo moltissimo. Abbiamo anche creato una struttura in legno. Una sorta di chiosco drive & takeaway. Le persone arrivano, prendono la pizza e tornano a casa, oppure si fermano a mangiare all’aria aperta. Tutto in maniera smart e rilassata”, spiega sereno Antonio. Orgoglioso della sua idea. Che va a integrare e a completare perfettamente il servizio al tavolo. 


Antonio e Giovanni Polzella nell'oliveto 

L'olio extravergine d'oliva prodotto nell'azienda agricola di famiglia

Gli interni del ristorante-pizzeria

La zona "produttiva" all'interno del ristorante

In carta? Linguine ai frutti di mare, ma anche pappardelle al cinghiale. Taglieri del contadino, ma anche fritture di pesce. E poi loro, le pizze. “Utilizzo soprattutto Petra 1 e Petra 9, mentre il lievito madre lo rinfresco con la farina Panettone. E per il pane uso tantissimo il Bonsemì e i germinati”, racconta Polzella. Che fra le sue “chicche” annovera la Fior di Formaggi, summa di fiordilatte, pecorini a latte crudo L’Angelico e S.Antonio dell’azienda agricola Saba (di Massa Marittima), stracciatella del caseificio Val di Cecina, brie, vecchio cacio di Pienza e parmigiano reggiano; la Portoferraio, con polpo, patate del Fucino, olive nostraline, pesto, pinoli di San Rossore e basilico; e l’Insuperabile, preziosa della cipolla di Certaldo e del tonno della Conserveria Tonnina dell’Isola d’Elba. Mentre fra le “spicchiate” spiccano la Tosco Emiliana, con burrata Val di Cecina, parmigiano reggiano, pecorino S.Antonio, Bazzon Cotto del Podere delle Pianacce e crudo riserva Bazzone della Garfagnana (Presidio Slow Food). Che torna nell’Etrusca, pizza “ripiegata” alla cui bontà concorrono pure carciofi e crema di carciofi.   


La pizza Tosco Emiliana

Antonio Polzella mentre inforna il pane

I tagliolini al tartufo

La pizza Alyssa: la combo perfetta fra pistacchi e mortadella


Rusticità ed eleganza nelle pizze di Polzella


Il Ciaccino 5 & 5 a modo mio - Foto dal libro Di grano in grano, edito da Gribaudo

Antonio Polzella e Sara Papa al Sigep 2020 - Foto di Paolo Terlizzi

Toscana. Tanta Toscana nelle pizze di Antonio. Che naturalmente non tradisce il “ciaccino”. Elaborandolo in versione 5&5 a modo mio: una sorta di focaccia in pala farcita con la tipica torta di ceci, burrata e melanzane grigliate. “Il nome 5 e 5 deriva dalla consuetudine, in uso a partire dalla metà del XX secolo, di chiedere al tortaio (il venditore di torta) 5 centesimi di pane e 5 centesimi di torta, ovvero, abbreviando, un 5 e 5”, come si legge (a pag 142) nel volume Di Grano in Grano: edito da Gribaudo e scritto in tandem con Sara Papa. “Collaboro anche con il Piccolo Birrificio Clandestino di Livorno. Io gli porto i miei grani, dal senatore cappelli al verna, dal gentil rosso al farro monococco, e il birrificio produce la Trepponti Ventola Edition. Che si trova qui da noi, ma anche in altri locali”. 


La Ventola di Antonio Polzella e famiglia ha riaperto a Vada (Livorno).


❓Quali nuove liaison fra terra e mare❓
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Cristina Viggè
2020-07-07T14:49:42+02:00

Una tartare di pesce al nuovo Molo Sant'Erasmo di Palermo

Leggi l'articolo su guidasicilia.it

Riusciremo ad ancorare il mare alla città?

Dei porti fecero la loro ragion d’essere le Repubbliche Marinare di Genova, Venezia, Pisa e Amalfi. Perché si concentrava lì la loro forza: in quello spazio saldamente legato alla terra e infinitamente proiettato all’orizzonte, verso il pelago e nuove conquiste. Oggi? Molti sono i porti ancora capaci di mantener saldo il proprio valore commerciale e turistico. Basti pensare a Trieste, Ravenna, Cagliari e la stessa Zena. Ma ve ne sono anche altri che stanno rinascendo e riconquistando il loro senso perduto. Anzi, che stanno acquisendo un diverso e colto significato. È il caso di Palermo. La “città che ha voltato le spalle al mare”, come disse Leonardo Sciascia. Affermazione finalmente smentita. Grazie a un importante progetto di riqualificazione dell’intero waterfront, fortemente voluto dall’Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sicilia Occidentale.

A Palermo il mare torna a parlare con la città

Sì, Palermo torna a dialogare con il suo mare. O meglio, il mare diviene parte integrante della città. Là, dove il fiume Oreto termina la sua corsa, tuffandosi nel Mediterraneo. Là, dove resiste ancora una piccola comunità di pescatori. La, dove il 10 luglio, nasce il Molo Sant’Erasmo, la nuova avventura ristorativa di Saverio Borgia, già capitano, col fratello Vittorio, della griffe Bioesserì. Presente sia nel capoluogo siciliano sia a Milano (con ben due locali).

Il Molo Sant'Erasmo fa parte di un ampio progetto di riqualificazione del porto palermitano

"L’apertura di un ristorante gestito da giovani che dà lavoro ad altri giovani merita fiducia e un grande in bocca al lupo. Il recupero del porticciolo di Sant’Erasmo è stato il primo nodo sciolto sul waterfront di Palermo: a questo spazio abbiamo destinato energie e denaro, e il risultato ci ha dato ragione. Già a partire da questa anomala estate i palermitani potranno fruire di un luogo sul mare, dotato di strutture di accoglienza e ristoro, una naturale prosecuzione verso sud della Cala e del verde del Foro Italico di cui la gente si è già appropriata. Nonostante l’emergenza sanitaria abbiamo aggirato la lentezza che accerchia le opere pubbliche in Italia e siamo orgogliosi di questa inaugurazione, soprattutto perché quando si riqualifica si aprono spazi lavorativi importanti e sappiamo bene quanto, nell’immediato, sia necessario investire per ripartire”, spiega Pasqualino Monti, presidente dell’AdSP del Mare di Sicilia Occidentale.

Fra bianco e blu al Molo Sant'Erasmo

"Riportare il mare e i suoi sapori in centro città: questo è quello che mi ha spinto a credere in questa sfida. Molo Sant'Erasmo sarà un luogo per tutti, una trattoria dal gusto contemporaneo, fuori dai soliti stereotipi a cui siamo abituati. Una cucina sincera, senza orpelli o dettagli pretenziosi, ma gustosa. Abbiamo realizzato dei piatti che sanno leggere le esigenze della ristorazione contemporanea, ma rimangono legati alla concretezza della tradizione”, puntualizza Saverio. Che con la coraggiosa impresa ha anche dato venticinque nuovi posti di lavoro.

Il Molo Sant'Erasmo è la nuova realtà firmata Saverio Borgia

E così, fra vetro, ceramiche bianche e blu, e una palma come faro, prendono forma pietanze capaci di cogliere l’essenziale, inebriandosi di solarità. Polpette di pesce azzurro, ittiche tartare, sauté di cozze, tacos di gambero rosso (ma anche parmigiana di melanzane) sono pronti a regalare una nuova narrazione del mare. Tutti i giorni, dalle 12 alle 2 di notte.

Ancôa, il bistrot de Il Marin, conquista uno spazio al Porto Antico di Genova

Mangiando vicino al Bigo di Renzo Piano

Intanto? Anche a Genova qualcosa si muove. Ma non è il mare. È invece il vento. Il marin, per l’esattezza, quello caldo e odoroso che soffia dalla Liguria fino alle Langhe, e da cui mutua il nome il ristorante guidato da Marco Visciola: Il Marin per l’appunto, al secondo piano di Eataly Genova, all’interno dell’Edificio Millo, nel cuore del Porto Antico. La grande piazza pieds dans l’eau. Un vento di passione che smuove vibranti energie. Tant’è che l’Anciôa, il bistrot del Marin, lascia (fino a settembre, tutti i giorni, dalle 12 alle 24) i piani alti per conquistare il suo pied-à-terre a due passi dal Bigo di Renzo Piano. Con intorno la Biosfera, l’Acquario e un angolo urbano pulsante di vita. 


Acciughe, burro e pane rustico da Anciôa

La panzanella di polpo by Anciôa

Lo chef Marco Visciola

La Marin... aretta alle acciughe

Della serie, Il Marin resta ancorato a dov’è sempre stato, mentre la sua anima easy si sposta near the sea, proponendo una cucina ligure moderna, che si affida al pescato della Cooperativa Pescatori di Camogli: fiera di possedere l’unica tonnarella della regione, tutelata come Presidio Slow Food. In carta? Acciughe del Mar Ligure e tonno alalunga su pane rustico e burro; gamberi biondi e gamberi viola; tonno e melone; panzanella di polpo; baccalà e friggitelli, nonché insalate che vantano sempre un elemento marino, dalla salicornia alla maionese alle alghe. Non dimenticando le Marin… arette, preparate a partire dalla focaccia genovese, ma a foggia di soffice pagnottella e poi farcite. Anche con sgombro affumicato, zucchine trombetta, erbe liguri e prescinseua. E se nel pomeriggio si fanno avanti i gelati della gelateria alpina Làit, per l’aperitivo si possono ordinare i cocktail firmati dal secret bar Malkovich. E da giovedì 9 luglio, serate a tutto sushi ligure in collaborazione con Broadside Sushi. Per dar voce al lato poliedrico e poliglotta del mare. 

 



Cristina Viggè
2020-07-23T14:21:02+02:00

Giacomo Devoto con Giuseppe Messina al Sigep 2020 - Foto di Paolo Terlizzi

Giacomo Devoto: dal mare a quota 2.400

“Il nostro nuovo progetto? È l’azienda agricola di Fosdinovo. Adiacente alla Locanda de Banchieri. Un’azienda dedicata alle carni bianche da cortile, ma anche agli ortaggi e all’olivicoltura. Per capirci: l’orto è attaccato alla cucina e l’insalata per la cena la raccogliamo alle 19. Così risulta freschissima e croccante. Idem a colazione. Le uova sono quelle delle nostre galline. Proposte sode, scrambled, oppure in omelette”, racconta Giacomo Devoto, titolare visionario e volitivo di ben tre insegne tutte italiane. E tutte genuinamente “nutrite” dai prodotti della neonata farm in provincia di Massa-Carrara. Anzi, a voler essere precisi, in Lunigiana, landa crossover che tocca Emilia, Toscana e Liguria. In perfetto equilibrio fra il mare, il fiume Magra, le Apuane e l’Appennino Tosco-Emiliano.

Lusso sussurrato alla Locanda de Banchieri di Fosdinovo, in terra di Lunigiana

Lunigiana. Terra della Luna (e dei cento castelli). Terra di passaggio, di incontri, di contaminazioni e di integrazioni. Terra dell’antica città romana Portus Lunae, oggi Luni. Terra dove spiccano pure la spezzina Sarzana e le Officine del Cibo, l’altra “casa” firmata Devoto (in località Battifollo). Mentre per scoprire il terzo locale serve scalare le montagne valdostane. Visto che la Baita Belvedere si trova sull’Alpe Salere Superiore, a Champoluc, in Val d’Ayas. A 2.400 metri di quota.

Una delle belle camere della Locanda de Banchieri

“Qui invece ci troviamo a 300 metri sul livello del mare. Che se ne sta a soli sei chilometri. Ma cenare e dormire alla Locanda de Banchieri è davvero un’esperienza emozionale. Abbiamo quattro camere e quindici coperti al massimo. Naturalmente su prenotazione. Uno spazio molto intimo, riservato ed esclusivo”, puntualizza Devoto, facendo focus sulla dimora storica: un tempo appartenuta alla potente famiglia dei Banchieri e oggi trasformata in un buen retiro dalle atmosfere charmant. Le cui room sono intitolate alle celebri famiglie degli Ubaldini, de’ Medici, Castrucci e Malaspina. Evocati da Dante Alighieri nella Divina Commedia. 


Formaggi e altri prodotti della Lunigiana alla Locanda de Banchieri 

“Alla Locanda ci sono io in cucina. E propongo due menu degustazione da dieci portate. Incentrate sulla terra e sul mare. Si tratta di piatti diretti, che sanno bene dove andare, senza fare voli pindarici. Pietanze che eleggono a protagonisti ingredienti autoctoni lunigianesi. Riletti in chiave creativa, per non andare in competizione con le ricette della nonna, ma riuscendo comunque a valorizzare il territorio. In futuro vorrei però ampliare i menu. Per esempio mi piacerebbe proporne uno in omaggio alle diverse regioni d’Italia. In una sorta di Grand Tour. E mi piacerebbe anche creare un mini percorso di entrée dedicato alle ricette tradizionali di questa zona, presentate in versione miniaturizzata. Tipo i testaroli pontremolesi, il muscolo ripieno alla spezzina. Ma dobbiamo attendere nuove stoviglie e raggiungere l’optimum dell’organizzazione”, continua il meticoloso Giacomo. Che per la mise en place ha già scelto alzatine in porcellana di Limoges, posate Gio Ponti by Sambonet e bicchieri griffati Zafferano.

Colazione d'eccellenza alla Locanda de Banchieri

Giacomo, che non trascura qualche proposta alla scoperta della medievale Fosdinovo (la “Fauce Nova”, ossia la foce stradale nuova), premiata con la Bandiera Arancione del Touring Club; o all’insegna dell’area archeologica di Luni, con il suo museo e quel che resta di signorili domus. Il tutto corredato di visita in cantina. “Certo, abbiamo stretto sinergie con Diego Bosoni delle Cantine Lunae di Castelnuovo Magra e con Ivan Giuliani della locale azienda agricola Terenzuola”, commenta orgoglioso Devoto. Che, intanto, fa la spola fra la residenza con ristoro e le sarzanesi Officine del Cibo.


Giuseppe Messina e Giacomo Devoto - Foto di Stefano Caffarri

Officine, a sottolineare non solo l’arte di saper fare, ma pure quella di sperimentare e di mettersi costantemente in gioco. Con il napoletano Giuseppe Messina alla regia degli impasti. E con la piccola cucina a dar voce a croxetti (tipici di Varese Ligure e fatti con l’iconico stampo in legno); lattughine ripiene di tuccu (salsa di pomodoro al lardo e parmigiano stravecchio); cima di vitello ripiena alla levantina; nonché stocco con fagioli di Pigna e Conio e cipolla di Treschietto. Per una proposta capace di sintetizzare l’universo ligure (e lunigianese) e il verace mondo partenopeo della pizza. Realizzata con le farine Special e Petra 3.


Alle Officine del Cibo di Sarzana, liaison fra Liguria e Campania - Le foto sono di Stefano Caffarri



“Una delle nostre pizze signature è senza dubbio Le conserve della nonna, con verdure al naturale e fermentate in acqua e sale, pomodoro giallo e pesci marinati. E un’altra ancora è la Petrilli all’antica, con il pomodoro di Paolo Petrilli marinato con l’aglio di Vessalico, l’origano della nostra azienda di Fosdinovo, la mozzarella di bufala campana La Favorita e una bella grattugiata finale di parmigiano reggiano delle vacche rosse di un caseificio della Val d’Enza, vicino al Passo del Lagastrello”, racconta patron Giacomo. Che non dimentica la pizza con baccalà e clorofilla di erbe aromatiche di macchia, nonché un antichissimo cult regionale quale la Piscialandrea (in onore dell’ammiraglio onegliese Andrea Doria). Una sorta di pizza in padellino - con Petra 3 e Petra 9 - preziosa di acciughe, pomodori, capperi e olive. 


La Piscialandrea, ossia la grande tradizione ligure - Foto di Stefano Caffarri

La pizza al vapore, ossia la massima sofficità - Foto di Stefano Caffarri

La riscossa del cornicione: La parte più buona della pizza - Foto di Stefano Caffarri

Il calzone fritto (e caldo) incontra gli ingredienti a crudo (e a freddo) - Foto di Stefano Caffarri

Una mini pizza tonda napoletana per chiosare la degustazione - Foto di Stefano Caffarri

“Inoltre abbiamo introdotto una serie di degustazioni”, puntualizza il deus ex machina. Che snocciola un tasting a tutte pizze veraci napoletane; uno incentrato sul concetto di PizzaLab, mano libera di Giuseppe a ritmo di fritti, pizze e panini al vapore (anche farciti con una buona genovese); e un altro battezzato Ti raccontiamo la nostra pizza. Excursus che parte dal passato - con la leggendaria Piscialandrea - per giungere alla contemporaneità. Passando per un assaggio di pizza al vapore (con pomodoro, clorofilla di basilico, crema di burrata ed extravergine Coppini affumicato), seguito da due provocazioni. Anzitutto la riscossa del cornicione. Traduzione: La parte più buona della pizza, condita come se fosse una pasta al pesto accomodata: con brillante pesto artigianale, pepe, pinoli e crema di patate. Nonché la rivisitazione del calzone fritto: svuotato e riempito con ingredienti “a freddo”, per un bel contrasto fra esterno e interno. Ad esempio, con la mortadella Favola by Bonfatti, la crema di burrata, la saba dell’Acetaia San Giacomo e una polvere di arance amare. “A chiudere poi serviamo una mini verace tonda. Per accontentare gli irriducibili della pizza napoletana. Proponiamo una Marinara bella spinta e sapida. Con pomodoro del piennolo di Maria Coppola e bufala”.

Lassù a Champoluc, alla Baita Belvedere - Foto di Stefano Caffarri

La carne, protagonista alla Baita Belvedere - Foto di Stefano Caffarri

Ma Giacomo fa anche la spola dalle Apuane all’Alpe Salere di Champoluc. Dove guida il Rifugio Belvedere. “Tanto sono tranquillo. Il restaurant manager Igor Vendemia supervisiona tutte e tre le strutture”, dichiara Devoto. Che ha affidato la cucina della baita con camere (e pure con mini piscina panoramica) allo chef Nicolò Salvagnin. Che tutti i venerdì di luglio e agosto manda in scena la Grigliata Atomica. Mentre ogni sera propone un poker di degustazioni: dalla mano libera all’assolo di manzo, dalle carni alla griglia alle carni bianche dell’agriturismo in Lunigiana. “Ma il prossimo inverno tornerà la pizza ad alta quota”, preannuncia felice Devoto. 


Le Officine del Cibo, la Locanda de Banchieri e il Rifugio Belvedere di Giacomo Devoto hanno riaperto a Sarzana (La Spezia), a Fosdinovo (Massa-Carrara) e a Champoluc (Aosta).


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Cristina Viggè
2020-07-24T13:54:19+02:00

La Preséf: una stella Michelin all'interno dell'azienda agrituristica La Fiorida

Leggi l'articolo su identitagolose.it

Può una stalla dar più luce a una stella?

Possono entrare e uscire. Liberamente. Contando su verdissimi prati all’esterno e ampi spazi all’interno. Vitelli, manze, manzette e vacche in lattazione, a La Fiorida di Mantello (Sondrio, in Bassa Valtellina), godono di ambienti vivibili e vitali. Sintetizzati in una stalla di oltre 1.800 metri quadrati, perfettamente organizzati e pensati per ospitare duecento capi di bruna alpina. Non solo. I pannelli solari posizionati sopra la stalla bovina assicurano una parte dell’energia elettrica. Mentre l’acqua calda è garantita al cento per cento dagli scarti delle segherie della zona (i cosiddetti cippati).

L'eleganza della ruralità a La Fiorida di Mantello, Sondrio


Gli spazi affascinanti del ristorante La Preséf, che significa la mangiatoia

Un’azienda agrituristica (quasi) autosufficiente La Fiorida. Lombarda creatura agreste ed elegantissima di un imprenditore visionario come Plinio Vanini. Che con semplicità è riuscito a raccontare l’eleganza della ruralità. Suggellata persino dalla stella Michelin, che Gianni Tarabini porta con orgoglio tatuata sulla divisa de La Preséf, facente parte di Charming Italian Chef. Anche se lui è executive di tutta la struttura, seguendo anche il ristorante più tradizionale Quattro Stagioni. Sempre facendo la spesa direttamente in fattoria. Ovvio. Le carni sono infatti quelle di “casa” e i formaggi quelli prodotti (e stagionati) dal caseificio: dallo Scimudin alla Latteria, passando per Valtellina Casera e Bitto. E non dimenticando ricotta, mozzarella, burrata, burro, yogurt, gelato e latte. Il vero oro bianco della farm. Basti pensare che qui la mungitura è un rito da onorare alle 5 e alle 17. E ogni capo regala 25 litri di latte al giorno, per un totale di 75 quintali all’anno.

Le vacche pascolano libere a La Fiorida

Nella stalla de La Fiorida

Latte e gelato griffati La Fiorida

Lo chef Gianni Tarabini negli ambienti di stagionatura del formaggio

E poi? Ci sono i maiali - pronti a nutrire la lunga filiera dei salumi - e le capre di razza camosciata delle Alpi, il cui latte alimenta una linea di cheese ad hoc (tutti i prodotti sono anche in vendita sull’e-shop). A cui si vanno ad aggiungere gli orti, i frutteti, le serre, le camere e la beauty “farm” (nel vero senso della parola, visto che non manca il bagno nel latte). Della serie, quando il noto adagio “dalle stelle alle stalle” acquista tutt'altro significato. E la stalla dà linfa vitale alla stella, rendendola ancor più luminosa e arricchendola dei valori dell’ecosostenibilità e della contaminazione fra i saperi della terra e della tavola.

La tenuta agricola di Borgo Santo Pietro conta trecento pecore


La grande bellezza di Borgo Santo Pietro, nel Senese

Una delle suite di Borgo Santo Pietro, toscanissimo Relais & Châteaux

Non manca certo il pollaio a Borgo Santo Pietro

I pecorini prodotti artigianalmente a Borgo Santo Pietro

E proprio al concetto di farm to plate si rifà pure la filosofia di Borgo Santo Pietro, fascinoso Relais & Châteaux in quel di Chiusdino, in terra di Siena. Un resort lussuoso ed esclusivo, che si dipana fra giardini e suite, orti e terrazze, boschi e vigneti, nonché una fattoria, una Trattoria sull’Albero (progettata intorno a una grande quercia) e ben due stelle Michelin. Certo, perché una suggella il ristorante del relais Meo Modo, mentre l’altra brilla sulla Bottega del Buon Caffè di Firenze (eleggendo a logo due zampe di gallina). Due astri che pescano a piene mani dalla tenuta agricola del borgo: 270 acri a coltivazione biologica, dove convivono vitigni, verdure, frutti, erbe aromatiche, api (qui si produce pure il miele), galline, maiali, alpaca (preziosi per la loro lana), pavoni e ben trecento pecore. Felici di pascolare lungo il fiume Merse, nonché di donare il loro latte al caseificio del borgo. Dove nascono robiole, ricotte e pecorini. Freschi, stagionati e aromatizzati. Nel segno della massima integrazione. E della valorizzazione degli animali. Che concorrono appieno all’ecosistema circolare di ogni azienda agricola.

Il ristorante Meo Modo di Borgo Santo Pietro, insignito della stella Michelin

Un pavone alla corte di Borgo Santo Pietro

La Trattoria sull'Albero, a Borgo Santo Pietro

Ci sono anche gli alpaca nell'azienda agricola di Borgo Santo Pietro

La Bottega del Buon Caffè di Firenze, l'altra stella Michelin di Borgo Santo Pietro

E in Abruzzo? La fattoria torna. A far da colonna portante a un ristorante come Villa Maiella, luminosissima roccaforte di Guardiagrele, in provincia di Chieti. A guidarla da sempre? La famiglia Tinari. All’inizio (Anno Domini 1966) con Ginetta e Arcangelo. Oggi con Peppino e la moglie Angela, e i figli Arcangelo (in cucina) e Pascal (in sala). Due energici e volitivi Jeunes Restaurateurs. Ed è proprio Peppino ad occuparsi della farm, fra ortaggi a gogo e grugnanti maialini neri, accuditi con passione e dedizione. Per capire? Basta ordinare il Menu del Territorio. E i saporiti salumi homemade si fanno avanti. Fra chitarra di patate con fonduta di pecorino; pallotte cac’ e ova e pollo di campagna. Un'esperienza: rurale e raffinatissima.

Pascal Tinari di Villa Maiella e i maialini neri d'Abruzzo

Pascal, mamma Angela, papà Peppino e Arcangelo Tinari, alla guida di Villa Maiella


La chitarrina al ragù d'agnello è un must a Villa Maiella

Il nobile carrello dei formaggi di Villa Maiella, a Guardiagrele

Intanto? Marco Bottega sta nella sua Arcadia contemporanea: l’Aminta Resort di Genazzano. Nell’entroterra laziale. Non lontano dalla Città Eterna e dal Parco dei Castelli Romani. Aminta, come la protagonista della favola pastorale di Torquato Tasso. Perché di locus amoenus (stellato e Chic) si tratta: una collina, due casali di fine Ottocento e cinquanta ettari di spitrito contadino, incorniciati da boschi e impreziositi da 2.500 piante di noce. E ancora, ulivi, alberi da frutto, ortaggi, anatre, oche, polli e maiali. Mentre, fra i prati e la selva, vagabondano cinghiali, pecore e capre. In carta? Domina lo spirito bucolico, tradotto nelle lumachine nell’orto; nella quaglia nel suo nido; nei bottoni di lepre in salmì con ortiche, tartufo e lamponi; nella coscia di maialino all’anice stellato, petali di mela marinata al timo e salsa di friggitelli; e nel lombo d’agnello con patate, lattuga e rape rosse cotte sui carboni di noce. Natura docet. 


Marco Bottega nel suo Aminta Resort, a Genazzano, non lontano da Roma

L'anima bucolica di Aminta Resort

Da Aminta c'è pure la cheese room

Marco Bottega e le lumache

Poi c'è l’eccezione. Quella che (sempre) conferma la regola. Lui la stella non ce l’ha (almeno per il momento), ma la stalla sì. Eccome. O meglio, a seguirla è papà Flavio, che dirige galline, capre, maiali e mucche. Chiamandole per nome. E riverendo il loro latte come se fosse oro. Sì, proprio una bella storia quella di Riccardo Gaspari, dei suoi genitori (Flavio e Giuliana) e della moglie Ludovica Rubbini. Un ritratto di famiglia, ma pure di Cortina d’Ampezzo e di una malga nel lariceto. El Brite de Larieto, da dove tutto ha avuto inizio e dove tutto continua. Con passione e dedizione. Tutte le mattine. Tutti i giorni.


Lo chef Riccardo Gaspari - Le foto sono di Stefania Giorgi

Mucche al pascolo a El Brite de Larieto, a Cortina d'Ampezzo

Giuliana e Flavio, i genitori di Riccardo

Il burro del Piccolo Brite

Le uova sono sempre freschissime

Le caciotte del Piccolo Brite

Riccardo, Ludovica e le loro bimbe

Grazie alla Brite Mobile, Riccardo cucina anche ad alta quota

Un racconto di boschi e di silenzi, di cieli e di montagne, di profumi e di materia. Di latte, yogurt, burro e formaggi. Che prendono forma nel vicino caseificio, il Piccolo Brite: dalla caciotta Luppollotta (lasciata a riposo nella birra e nel pane) alla Fienosa, da quella al pepe rosa sino al particolare Rozes. Non trascurando una new entry: la mozzarella. Formaggi da acquistare e da assaggiare: negli ambienti vestiti di legno dell’agriturismo, anche interpretati in gnocchi, gnocchetti, casunziei e canederli d’autore. Insieme alle carni e ai salumi. Mentre è al SanBrite - in un fienile ristrutturato, accanto alla bottega dei formaggi - che Riccardo narra la sua colta agricucina. Iper alpina. Iper dolomitica. Iper genuina.  

 



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