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IL "QUOTIDIANO" DI CRISTINA VIGGÈ

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Riso, ossobuco e Timorasso

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Nel Pavese, un’autunnale serata all’Antica Posteria dei Sabbioni. Ad animarla? I padroni di casa Elena e Mario Sacchi, il menu country addicted firmato da Gabriele Ciceri, nonché una guest star come Walter Massa. Scapigliato portavoce di unconventional wine. 

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Tags: Parco del TicinoPaveseAntica Posteria dei SabbioniCascinaRisoOssobucoFaraonaConigliaVinoTimorassoDerthonaWalter Massa

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Riso, ossobuco e Timorasso

Nel Pavese, un’autunnale serata all’Antica Posteria dei Sabbioni. Ad animarla? I padroni di casa Elena e Mario Sacchi, il menu country addicted firmato da Gabriele Ciceri, nonché una guest star come Walter Massa. Scapigliato portavoce di unconventional wine. 

Testi Cristina Viggè

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Un uomo e il suo vino. Simili in tutto. Anche in quella doppia esse che caratterizza il cognome dell’uno e il nome dell’altro. Entrambi fuori schema, fuori dal coro, scapigliati, istrionici, estrosi. Ma non scontrosi. Anzi, cortesi. Sebbene lontani anni luce dal quel cortese vitigno che con loro condivide il varegato terroir alessandrino. Walter Massa e suo Timorasso sono unici, nel senso di non replicabili. Colti, autorevoli, audaci e pure un po’ sfrontati. “Il vino è figlio dei non dogmi”, sostiene Walter. E in una sera di mezzo autunno racconta il suo senso dell’equilibrio sopra la follia. All’Antica Posteria dei Sabbioni. Regno di Elena e Mario Sacchi. A San Martino Siccomario, nel pavese Parco del Ticino.


Walter, figlio del vento


“Papà chiese, lanciando una sfida: vogliamo vedere che gusto ha il timorasso? E suo fratello rispose: non darà soddisfazione”, ricorda Walter, ripercorrendo la via tortuosa che lo condusse, nel cuore dei Colli Tortonesi, a riprovarci con un’uva bianca del passato, destinata all’estinzione. “Sì, volevo fare la rivoluzione con l’uva dei nostri nonni. Non con quei vitigni che hanno la erre moscia”. Il timorasso ha invece due belle esse sonanti. “Anche se è difficile e rende poco”, prosegue mister Massa. Che nel 1987, con sole 400 viti, riesce a produrre 10 quintali di uva e 560 bottiglie di vino. “Ci sono andato di prepotenza, con nonchalance”. E forza e coraggio gli hanno dato ragione. E così tutto è cominciato. Dalla Costa del Vento. Riflettendo pure sulle criticità del timorasso. “Che sono la vigna. Perché va potata e diradata. Per permettere un costante passaggio d’aria. Evitando la formazione dei nemici funghi. E poi la cantina. Dove non devi toccare nulla. Infine, il tempo. Perché il timorasso più sta lì e più diventa buono. Solo applicando il metodo cadrega si ottiene un buon vino”. Aveva e ha le idee chiare Walter. Che in curriculum vanta studi alla Scuola Enologica di Alba. E che poi ha sempre fatto di testa sua. Vincendo. “Con la vendemmia 2016 produrrò 70mila bottiglie”. Ma dobbiamo attendere il 2018 per assaggiarle. Perché il Derthona - il nome ufficiale del vino - è un tipo slow. E necessita di calma e pazienza.



Degustazione con dérapage


Eccolo dunque il "Costa del Vento" 2013. In magnum. Dorato, solare, austero, regale. E pensare che tutto è partito da qui. Da un vino-icona di un timorasso che non ha alcun timore di presentarsi per quel che è. Forte, opulento, complesso, minerale, sapido, fresco, ardito, selvaggio. Impossibile mettergli le briglie. Lui galoppa libero nel calice. E sul palato. E poi ci sono il Derthona 2013 e il 2015. Anticonvenzionali pure loro. Polposi, materici, essenziali, persistenti, lunghi e longevi. Resi eterni dal tappo a vite. “Sì, perché la vite è vita ed esige il tappo a vite”, precisa il signore del timorasso. “Certo, manca il pathos dello stappare. Ma pure quello del gettare tutto nel lavandino”. Sa quel che fa Walter. E sa quel che dice. Anche quando ribadisce che i suoi si chiamano vigneti, non cantina. Vigneti Massa, a Monleale. Quartier generale pure del “Montecitorio”. Altro timorasso. Altra storia. Un cru deputato ai massimi elogi e vocato a divenir ambasciatore del territorio da cui proviene. Vini che non rinnegano il bâtonnage, ma di certo prediligono il dérapage. Come quello che si farebbe in auto o in moto. Cambiando rotta con caparbietà e sicurezza. E poi? C’è lei, la barbera. “Da sempre simbolo di intruglio e mescolanza. Non come il nebbiolo, sinonimo di Barolo”, spiega il visionario vignaiolo. Che invece ha creduto nella grandezza e nella potenza della barbera. Incarnata nel “Monleale” e nella “Bigolla”. Morbida, rotonda ed elegante la prima; affascinante, floreale, fruttata e speziata la seconda. Due femmine di razza. 



Pietanze in (p)osteria


Così come di carattere sono i piatti preparati dallo chef dell’Antica Posteria dei Sabbioni: Gabriele Ciceri. Timido? Solo in apparenza. La sua grinta e la sua delicatezza emergono dalle pietanze. Paladine di una campagna nutrita di silenzio e di risaie. In pieno Parco del Ticino. Lungo l’antica via Francigena - anche nota come via delle rane. Dove ben si fa notare questo ottocentesco casolare tutto legno, mattoni a vista, salone con camino (acceso), salette più riservate e soppalco. Un ambiente poliedrico e piacevolmente labirintico. Che scende e sale senza mai annoiare la vista. Che si spalanca anche su quelli che un tempo furono stalla e porticato. Per l’accoglienza di cavalli e viandanti. Ora trasformati in spazi dallo spirito avvolgente e rassicurante. Tanto quanto le creazioni di Gabriele. Capaci di tenere il ritmo dei nettari walteriani. Voilà, sformato di carciofi con fonduta di Montebore. Un Presidio Slow Food che mutua il nome da un paesino dell’alessandrina Val Curone e che molto somiglia nella turrita forma a una torta nuziale. E ancora, risotto alla Barbera, salsiccia di Bra e Castelmagno, altro caseario must piemontese (anzi, cuneese); agnolotti ripieni di faraona al ragù di coniglio, per un affondo nell’aia; e ossobuco di fassona (by Macelleria Oberto) con polenta grigliata e farinata. Gemelle all’apparenza. Differenti nella consistenza. Per un trompe l’œil da assaporare.



Di sabbia e di sorrisi


E prima del vellutato bonet? Salva cremasco, scimudin, comtè, bitto e casera. “Abbiamo addirittura la sala dei formaggi”, puntualizza il titolare. Che non potendo tenere un carrello - vista la conformazione a più livelli del locale - dedica uno spazio ai figli del latte. “C’è persino la carta dei blu”, ricorda Mario. Nipote di colui che, nel lontano 1924, acquistò la cascina per trasformarla in osteria. Un vero factotum Mario, che con la moglie Elena condivide l’onere e l’onore dell’organizzare sempre tutto per bene: i pranzi e le cene (dal mercoledì alla domenica), i conviviali aperitivi tematici del dì di festa (alla scoperta delle varie regioni d’Italia o dei Paesi del Mondo) e una quasi biblica carta dei vini. Mister Sacchi - mamma valtellinese (di Teglio) e papà di Pavia - ci tiene. Ama il vino come lo amava il nonno. E in carta entrano circa quattrocento etichette. Italiane (incluse alcune biologiche) ma pure straniere. “Propongo anche nettari al bicchiere. Ma preferisco decidere al momento”, continua Mario. Che da buon deus ex machina sa gestire al meglio l’insegna. Con una carta eclettica, in grado di svelare tanto le carni quanto i pesci (di mare… e di lago), e con due tasting menu: il "Mazzini" e il "Cairoli". “Del resto, il Risorgimento è anche passato da qui”, docet. “In futuro? Mi piacerebbe aggiungere un menu del Parco, per valorizzare i prodotti di queste terre”. Fatte di sabbia, di risaie e di sorrisi.


2017-11-01T00:00:00+01:00

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