La potenza del Piceno

    La Canosa: l’ermo colle di Alberica e Riccardo Reina

    A Rotella, nel cuore della Valle del Tesino, lo sguardo volge all’infinito. Toccando i leopardiani Monti Sibillini. Mentre in cantina nascono vini contemporanei, capaci di dar voce al generoso ed energico terroir marchigiano

    “Quando acquistammo la tenuta, nel 2004, i terreni erano coltivati a grano e i casali erano ridotti a ruderi. La prima volta la vidi. Ma me ne andai. Per poi ritornare a settembre, quando il grano ormai era stato mietuto, e ancora a novembre, con la nebbia. Ricordo che percorrendo la stradina che costeggia Poggio Canoso scorsi una poiana. Era davanti a me e si fermava ad ogni curva, passando da un albero all’altro e indicandomi il cammino. Mi fece strada, conducendomi sino all’ingresso. Credo sia stato un segno del destino”. Riccardo Reina racconta così, con palese emozione, il suo lento avvicinamento a quella che presto sarebbe diventata la sua nuova tenuta: La Canosa. Che mutua il nome proprio da Poggio Canoso, uno dei quattro castelli - edificato  tra il XII e XIII secolo dai monaci farfensi (poi benedettini) - che appartengono al piccolo comune di Rotella (gli altri sono Castel di Croce, Rovetino e Capradosso), in provincia di Ascoli Piceno. Nella parte meridionale delle Marche. Anzi, più precisamente nella Valle del Tesino, alle spalle del Monte dell’Ascensione e non lontano dal Parco Nazionale di quei Monti Sibillini tanto cari a Giacomo Leopardi. Ma Poggio Canoso? Poggio, perché appollaiato su un poggio roccioso. Canoso invece pare derivare dal latino canus, ossia invecchiato e canuto, per via del calcare biancastro che lo nutre. Oppure? Vi è la tesi che sostiene il suo somigliare nella forma a un cane, in posa fiera e in atteggiamento di sfida. Come si nota nello stemma del luogo. 

    Alberica Reina nella tenuta La Canosa, a Rotella, nelle terre del Piceno

     

    La forza delle Marche

    “Valorizzare anche le regioni minori del vino. Ecco qual è davvero la mia missione. E le Marche rappresentano una bella sfida. Perché hanno tanto potenziale. Perché hanno già fatto un ottimo lavoro. Perché possono crescere ed evolvere. L’importante è tendere verso la massima eleganza”, continua Riccardo. Patron della Canosa. Ma non solo. Un imprenditore visionario e lungimirante. Un valoroso condottiero, degno del cognome che porta: quella famiglia Reina che controlla e coordina la Illva Saronno Holding, di cui fa parte anche il gruppo che collega tre vitivinicoli e iconici brand siciliani quali Corvo, Florio e Duca di Salaparuta. Insomma, mister Reina non è certo nuovo al vino. Ne conosce tecniche e dinamiche. Ma quella della Canosa è un’avventura tutta sua. E della giovane e solare figlia Alberica, alla  quale in futuro andrà la guida della maison. “In totale abbiamo un centinaio di ettari. Ma solo cinquanta sono a vigne. Che hanno preso il posto del grano. E due ettari sono a tartufaia. Una è particolarmente vocata al tartufo nero. Inoltre, contiamo un noccioleto”, prosegue orgoglioso mister Reina, descrivendo un terroir in cui è la biodiversità a farla da padrona. Regalando un tessuto variegato e un terreno minerale, calcareo e argilloso, dalle tonalità rosse, bianche e grigie. “La passerina, per esempio, è esposta a sud e se ne sta a 580 metri di quota. È il nostro vigneto più alto, leggermente inclinato verso il mare. Che dona salinità alla terra, concede una buona escursione termica e tiene pure le vigne pulite dall’umidità”, precisa ancora lui. “E ora abbiamo preso anche dodici ettari coltivati a verdicchio, nell’area dei Castelli di Jesi. Presto a conduzione biologica”. 

    Uve a bacca rossa e a bacca bianca alla Canosa, dove ogni vitigno vanta un'esposizione peculiare e puntuale

     

    In vigna veritas

    Passerina e sangiovese a sud. Pecorino a nord. Montepulciano a sud-est. Chardonnay a guardare il mare. La mappatura è fondamentale. E ogni vitigno trova la sua collocazione ottimale e puntuale. “Perché il vitigno deve poter esprimere al meglio le caratteristiche del suolo. E il vino deve saper far emergere le peculiarità del vitigno. La cantina? È studiata ad uso e consumo delle vigne”, afferma Riccardo. Che ha le idee chiare. “Io preferisco vini dalla bevibilità immediata. Perché se un vino lo stappo ora lo voglio bere ora. E non voglio neppure vini che sappiano troppo di legno. Per questo abbiamo optato per i tonneau in legno di rovere di Allier. Così il rapporto fra liquido e superficie è maggiore. E il vino respira. Persino per anni”. Una visione contemporanea quella di Alberica, di suo padre e dell’enologo Nicola Dragani. Che danno voce ai vitigni autoctoni, non dimenticando quelli internazionali. Che rendono omaggio alle Marche, guardando oltre l’ermo colle. “Anche per quanto riguarda il personale abbiamo cercato di dare spazio a gente e a ragazzi del luogo. Inoltre abbiamo rinnovato l’intero parco macchine. Sono macchine agricole iper moderne. Oserei dire 4.0. Sono tutte collegate ai satelliti, vantano un efficiente sistema di frenatura e un super controllo di trazione. La sicurezza prima di tutto”, commenta monsieur Reina. Questione di etica e di sostenibilità. Cui concorre pure l’energia autoprodotta, grazie ai pannelli solari.

    Anche il nome di un vino è importante. Perché può raccontare un territorio e la sua storia, perpetuandone la memoria

     

    Nel nome del vino

    Sangiovese e montepulciano. Due vitigni amati da Riccardo. Che trovano la loro essenza in due vini come il Nullius (assolo di sangiovese) e il Musè (montepulciano in purezza). Entrambi affinati in tonneau di rovere di diverse tostature per 12 mesi. Poi lasciati in bottiglia per altri 8-10 mesi. Due nettari rubini, tonici, eleganti e fragranti, dai tannini levigati e dal carattere deciso. Più fruttato il primo. Più boisé e speziato il secondo. Che prende il nome dall’espressione vernacolare che sta a indicare “un viso dai lineamenti gentili”. Mentre Nullius fa riferimento alla bolla papale Nillius Diocesis, con la quale la zona di Rotella, complice il grande potere dei monaci farfensi, ottenne piena autonomia economica e politica. Ma è nel Rosso Piceno doc che si compie il vero miracolo. È quando sangiovese e montepulciano si uniscono che le cose cambiano. “Certo, perché loro sono molto diversi. E necessitano di affinamenti diversi, di legni diversi, di tempi diversi. Il loro assemblaggio è affare delicato. Perché si devono sposare, rispettando la propria identità, ma andandosi a fondere perfettamente. Esaltandosi vicendevolmente. Insomma, non si tratta di un semplice taglio. Bensì di un’operazione complessa”, puntualizza Reina. Rammentando il Signator, in cui i due vitigni dialogano al 50%, dando voce a un vino brillante, puntiglioso e fatto bene. Come quel “notaio” (in latino) da cui pesca il nome. Un Rosso Piceno Superiore è invece il Nummaria (montepulciano al 70% e sangiovese al 30%), un rosso intenso e avvolgente, che fa riferimento alla Theca Nummaria, la cassaforte dei documenti importanti. Incensando due vitigni-scrigno dell’italica tradizione vitivinicola.  

    Passerina e pecorino, due vitigni cult del territorio marchigiano

     

    Ogni nettare… una narrazione

    Ma non finisce qui. Ci sono anche il Rovetì, ottenuto dal merlot coltivato ai piedi di una selva che incornicia i resti della rocca di Rovetino; il Tesino (a tutto cabernet sauvignon), come il fiume che, nascendo dal Monte La Torre e sfociando nell’Adriatico, attraversa la tenuta, dando spazio alla brezza che dai Sibillini corre al mare; il Consus, un rosato da sangiovese che rende tributo alla fertilità e alla generosità della terra, evocando l’antica divinità romana del grano; e il Canoso, spumeggiante sangiovese (metodo charmat lungo) dalle persistenti nuance di frutti rossi. E spumeggiante è anche la Passerina, prodotta nelle versioni brut (ottima con crostacei, frutti di mare e fritto misto all’ascolana) ed extra dry (ideale con i pesci in genere e le carni bianche). E valorizzata pure nel fresco, delicato e minerale Servator, con chiaro riferimento al conservatore dei documenti pubblici, ossia colui che incarnava la memoria storica di un luogo. Così come la passerina rappresenta la memoria vitivinicola marchigiana. E il Pekò? È un Offida Pecorino docg dal tono giallo tenue, ma dal bel carattere. Un omaggio a quell’uva matura che, durante la transumanza, pare fosse tanto amata dalle pecore. E se il Monachus (un inchino ai monaci fondatori di Poggio Canoso) svela tutto l’equilibrio e la lucentezza dello chardonnay, l’Insignis dà voce al sauvignon blanc. E pure al notabile e illuminato percorso che ha condotto alla sua realizzazione. 

    La Canosa è cantina, shop, ristorante per eventi e pure country house

     

    L’accogliente country house

    Vino. Ma pure ospitalità. “Abbiamo persino la licenza per la ristorazione”, tiene a precisare Riccardo. Spiegando come La Canosa ben si presti anche per eventi privati e aziendali, ricevimenti, degustazioni e appuntamenti a tu per tu con l’enogastronomia. Organizzati specialmente nel periodo della vendemmia. Non da ultimo? C’è la casa vacanze, in stile country, disposta su due piani e con tutti i comfort. Per vivere appieno la vis selvaggia del Piceno.   

    T: Cristina Viggè

    19-09-2022

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