Monocromatismo

    Io sono blu

    Non è un colore associato alla cucina. E nemmeno al mondo del vino. Eppure tinge etichette, cocktail e piatti. Creando persino scenografie immersive

    È il colore della sera. Ma anche del cielo terso e del mare profondo. È uno dei tre colori primari, insieme a giallo e rosso. Ed è il colore freddo per eccellenza, come lo sono pure il verde e il viola. Fra le sue virtù? Quelle di generare calma, serenità, rilassamento ed equilibrio interiore. Finanche, in certuni casi, un po’ di malinconia e nostalgia. Che si ritiene acuisca a dismisura durante il cosiddetto Blue Monday (solitamente il terzo lunedì di gennaio). Molto True Blue di Madonna e I’m blue, da ba dee da ba daa, stile Eiffel 65. Fatto sta che in talune culture - in primis orientali - il blu rappresenti anche il colore della spiritualità, della divinità, della sacralità e della purezza. Nel buddhismo il blu simboleggia la compassione, la pace e la benevolenza; e nell’antico Egitto la grande madre Nut era in genere rappresentata e dipinta in blu. E Nel blu, dipinto di blu cantava pure Domenico Modugno, in un volo libero fra metafora e realtà. Senza dimenticare che per Mario Tessuto esisteva solo Lisa dagli occhi blu; mentre Mina intonava Le mille bolle blu e George Gershwin (nel 1924) componeva la Rhapsody in blue. E avere il sangue blu? Significa appartenere agli alti ranghi dell’aristocrazia. E non solo perché i nobili esibivano carnagione chiara e vene bluastre, ma anche perché solo i nobili detenevano il privilegio di indossare abiti tinti di blu. Colore ricercatissimo, costosissimo, rarissimo e difficilissimo da ottenere. Il prezioso pigmento ultramarinus - importato in Europa dall’Afghanistan (per l’appunto al di là del mare) - derivava infatti dalla polvere di lapislazzuli.

    Gli still life della serie Ultramarinus: Memories of the future by Jonathan Allen

     

    Design ultramarino

    Ed è proprio da una spessa, vellutata e monocromatica coltre di blu ultramarino che la designer Felicia Ferrone - fondatrice e creative director della griffe statunitense fferrone - ha fatto emergere la sua glass collection, durante l’ultima edizione del Fuorisalone. Dando vita e forma all’esposizione Still Now. The dinner, nello scenario di Villa Mirabello, architettonico gioiello milanese del XV secolo. Risultato? Un banchetto total blu, laico e sacro, assoluto e abissale, materico e immaginifico, pronto a evocare i sontuosi e opulenti banchetti rinascimentali, ma anche a rimembrare le classicissime nature morte del Seicento, senza mai perdere l’ancoraggio al Novecento. Incarnato in una miriade di oggetti domestici e quotidiani, recuperati e ripescati dai mercatini dell’antiquariato e dalle botteghe dell’usato. Un’installazione orizzontale (per la mise en place) e verticale (per il suo essere trasversale a diverse epoche), in cui l’anima cristallina dei bicchieri di Felicia - raffinati e funzionali, futuristici e rétro (la collezione Revolution docet) - si è messa a nudo, dialogando col passato e col domani. In un messaggio di memoria e visione, fragilità del vetro e resilienza del design. Capace di superare le generazioni, alimentando quello che la Ferrone definisce neo-grannyismo e ridando voce all’aura della nonna. Blu, blu, blu. Anche negli still life della serie Ultramarinus: Memories of the future, messi a segno con la complicità del fotografo Jonathan Allen. E anche nei cocktail realizzati dall’alchemica barlady Terry Monroe, la regista di Opera 33. Come il Gin & Tonic nutrito da Cashmere Gin (made in Biella e dall’etichetta blu), tonica e butterfly pea flower, il fiore di pisello farfalla (aka clitoria ternatea). Pronto a tinger di blu il drink.

    Evaluna e gli orecchini griffati Nadia Zenato Jewerly

     

    Oro, vino e lapislazzuli

    Cocktail blu. E vini blu. O meglio, un Garda doc dall’abito blu, come la notte. Versato nei cristalli by fferrone, ma pure da sorseggiare in un semplice calice al ristorante o a casa. Voilà Evaluna, concentrato di cabernet sauvignon e franc targato Sansonina, il progetto tutto al femminile guidato da Nadia Zenato e dalla madre Carla Prospero, in una settecentesca cascina vicina a Peschiera del Garda. Un terroir vocato ai bianchi, come il Lugana. Ma anche il luogo perfetto per accettare la sfida di dar luce a un grande rosso. Un nettare esuberante ed energico, sapido e seducente, avvolgente e rotondo, armonioso e sinuoso. Come un abbraccio femminile. Perché lui è un tributo alla femminilità. Già nel nome che porta. Inchino a Eva (la prima donna) e alla Luna (pianeta lontano, ma raggiungibile). Forze creatrici, icone genitrici, muse ispiratrici nonché ambasciatrici della biodiversità. Valore a cui Nadia dà respiro in tutta la sua produzione. E non solo vitivinicola, bensì anche in quella che la vede protagonista in qualità di artigiana e stilista: la collezione di gioielli Nadia Zenato Jewerly. Dove spiccano gli orecchini The Soul of The Heart. Pendenti in oro giallo, minimali e slanciati, che riproducono foglie di vite, grappoli d’uva, api, quadrifogli e il logo di Sansonina (che ha un palese richiamo alla forza di Sansone). Naturalmente su uno sfondo di lapislazzuli blu. 

    In alto, Roberta Bianchi, il marito Paolo Pizziol e i vigneti di Villa Franciacorta. In basso, l'Extra Blu e i bijoux in pendant

     

    Il mare dentro (e fuori) la bottiglia

    E anche Roberta Bianchi indossa orecchini blu. O meglio, bijoux Extra Blu. Realizzati con le capsule dei suoi Franciacorta. A conferma che nulla si butta e tutto si rigenera. Anche nel vino. Creando una connessione con la moda. E con il mare. “Il nostro Franciacorta Extra Blu è un extra brut che evoca, anche nel colore dell’etichetta, il colore blu profondo di quel mare antico che ricopriva i nostri suoli. Ancor oggi composti da marne stratificate e rocce preziose di fossili”, racconta madame Bianchi, figlia di quell’Alessandro che nel 1960 divenne proprietario (e in primis custode) di Villa Franciacorta, a Monticelli Brusati. Presentando nel 1978 il primo millesimato di casa. “Perché Villa ha la forza e la costanza di produrre solo millesimati”, commenta l’enologo e agronomo Angelo Divittini, nel corso di una degustazione - guidata dal sommelier Nicola Bonera - che ha messo l’Extra Blu in verticale. Indagando ben dieci annate, per un arco temporale di diciotto anni: dal 2018 al 2000. “Uno spaccato di vita, che ci fa capire come le cose mutano ed evolvono. Persino i lieviti sono cambiati (anche perché dal 2016 la maison utilizza solo quelli autoctoni, ndr)”, ribadisce Bonera. A conferma della resilienza, della longevità, della vitalità e della contemporaneità di un Franciacorta decisamente fuoriclasse. Figlio al 90% di uve chardonnay (da vigne vecchie di 45 anni) e di uve pinot nero di collina (da viti di trent’anni). Un nettare fresco, delicato e minerale, ma anche esuberante, pieno e complesso. Per via del fatto che un terzo della base svolga la prima fermentazione in barrique, sino alla messa in bottiglia. Dove resta almeno 48 mesi, a una temperatura costante compresa fra i 12 e i 15°C. Un vino di mezzo, perfettamente in equilibrio fra i più fragranti Emozione e Mòn Satèn e i più augusti Cuvette e Diamant. Un Franciacorta dal sorso abissale. Blu, per l’appunto. Sorso che ha convinto i master of wine durante il tasting (rigorosamente alla cieca) della 39esima edizione dell’International Wine Challenge. Uno dei concorsi vinicoli più rigorosi al mondo, che ha incoronato con la medaglia d’oro (e 95 punti) l’Extra Blu 2018. “Che ha lo spirito di un vino bianco, fine e schietto”, aggiunge Bonera. E noi aggiungiamo il fatto che anche il Franciacorta Emozione 2019 si sia aggiudicato la medaglia d'oro al concorso e sia salito sul gradino più alto del podio dell'Italian Sparkling Trophy.

    In alto, Alberto Massucco e gli Champagne. In basso a sinistra, la cuvée Mavì spicca con la sua spirale blu

     

    Charme bleu

    Una spirale, sinuosa e affascinante. Una trama di linee sottili, che vanno a creare una conchiglia, una cornucopia, un’atipica ellissi. Naturalmente di colore blu. Così è l’etichetta di Mavì, lo Champagne prodotto in esclusiva da Jean-Philippe Trousset, importato e distribuito in Italy da Alberto Massucco e alla nipotina (di Alberto) Maria Vittoria dedicato. Uno Champagne brillante, energico e avvincente, grintosamente minerale e romanticamente floreale. Figlio dello chardonnay (per l’80%) proveniente dai vigneti del villaggio premier cru Sacy (appartenenti ai Trousset sin dal XVII secolo) e del pinot noir. Segni particolari? Il 75% dei vini giunge da una réserve perpétuelle, conservata in una botte speciale dal 2017. Inoltre lo Champagne resta almeno per due anni sui lieviti prima di essere dosato (o di non esserlo per nulla). Il risultato è una bevuta scattante, dinamica e rigenerante. Capace di evolversi, come la spirale blu dell’etichetta. E come la visione di monsieur Massucco, che oltre ad essere un attento selezionatore (di récoltant manipulant) è divenuto pure produttore. Anzi vigneron, grazie al sodalizio con un gentiluomo a lui affine: Erick De Sousa, illuminato produttore di Avize. Colui che gli segue live le vigne, nel dipartimento della Marna.   

    In alto, la sala decagonale del ristorante e pasticceria Paolo Griffa al Caffè Nazionale. In basso, lo chef. il dehors e la brigata

     

    Risi, bisi e Chagall

    Pare che l’idea di scrivere Nel blu, dipinto di blu sia venuta al paroliere Franco Migliacci, una volta di fronte al quadro Le coq rouge dans la nuit, griffato Marc Chagall: il sommo pittore russo-francese che del blu fece il vessillo del suo fauvismo onirico e allegorico, utilizzandolo in molteplici opere. Blu eterno e fluttuante, che sublima addirittura in pietanza: Risi e Bisi Blu Chagall. A firmarlo? Paolo Griffa, il giovane e smagliante chef che sta alla regia di uno dei locali storici di Aosta, affacciato su piazza Emile Chanoux dal 1886 e ora rinato (e già stellato) con il nome di Paolo Griffa al Caffè Nazionale. Un unconventional ristorante-pasticceria, tecnologico, modernissimo eppur rispettoso del suo passato. Basti pensare che il progetto di restauro - capitanato dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali - ha fatto riemergere affreschi, pavimenti, boiserie e persino una porzione del vetusto Foro Romano cittadino. Uno spazio in cui la dualità si fa unicità. E in cui Paolo dà fiato al genius loci valdostano, filtrandolo attraverso le fitte maglie della sua mente volitiva. Per creazioni ironiche e funamboliche. Come i risi e bisi in blu dedicati a Chagall, complici un brodo di butterfly pea flower, un ristretto di brodo di osso di jambon de Bosses (cotto nella pentola Ocoo, per ottenere un gusto intenso), tamari, silene e cialde di farfalla. Realizzate con la fontina dop, naturalmente. Piatto che Paolo ha recentemente presentato in Asia, al Wish del Mira Hotel di Hong Kong, in occasione di una cena a quattro mani - con lo chef William Lau - organizzata dalla S.Pellegrino Young Chef Academy. La cui vision e la cui visual identity sono blu.  

    Il Metodo Classico firmato Medolago Albani

     

    Un classico dal sangue blu

    E mille bolle - non blu, ma dorate - sono quelle che nutrono il Metodo Classico griffato Medolago Albani. Azienda vitivinicola che spicca in provincia di Bergamo: a Trescore Balneario, sulle colline di Redona e all’imbocco di quella Val Cavallina che conduce sino in Valle Camonica. Ma soprattutto nel bel mezzo del blu di due laghi: quello d’Iseo e quello di Endine. Blu che allaga l’etichetta del metodo classico di famiglia. “Per il 97% è figlio dello chardonnay. Quello di vigneti esposti a sud, con una bella escursione termica fra giorno e notte. Poi vi è un 3% di pinot nero. Ma l’idea, in futuro, è quella di farlo in purezza. Per avere un blanc de blancs”, spiega Edoardo Medolago Albani. Figlio (insieme al fratello Alessandro) di Emanuele, già presidente del Consorzio Tutela Valcalepio (ora capitanato da Enrico Rota). Consorzio al quale la maison è associata, così come fa parte del Movimento Turismo del Vino Lombardia. Una trentina gli ettari (a 480 metri di altitudine) che alimentano la tenuta, dove nasce questo brut scattante e lucente, dalla piacevole tensione acida e dal finissimo perlage. Restato per almeno 24 mesi sui lieviti. Segni distintivi in etichetta (e sul collarino)? Il nobile stemma di famiglia (i Medolago Albani sono conti e vantano un aristocratico palazzo anche a Bergamo Alta); e la figura della statua che impreziosisce il giardino della secentesca villa padronale. “Ma come data simbolo della nostra realtà abbiamo preso il 1536. Anno che appare su una tela di scuola lottesca, raffigurante Santa Caterina d’Alessandria e conservata nella cappella dell’azienda”, chiosa Edoardo. Che produce pure un metodo classico rosé. Un assoluto di pinot grigio dalla seducente cremosità. Presentato anche in occasione della degustazione itinerante targata dal distretto EustachiOra. Che porta a Milano il vino, a misura di quartiere.

    In alto, il Custoza Superiore e il Bardolino Superiore. In basso, il Refolà, il Custoza e il Chiaretto

     

    Vigne in doppiopetto… blu

    “Ai nostri Superiori piace il blu”, si legge in un post su Instagram e Facebook. E probabilmente il blu piace anche a lui: Carlo Nerozzi, figlio di quel Sergio che con la consorte Franca fondò l’azienda a Sommacampagna, nel lontano 1980: Le Vigne di San Pietro, incastonate fra le colline moreniche del Garda e nel bel mezzo di un parco ad elevato tasso di varietà arboree. Un architetto per formazione divenuto un contadino per scelta e vocazione Carlo. Che nei vini ama la “mineralità, i colori trasparenti e caldi, i profumi sottili e seducenti”, come lui stesso dichiara sull'aziendale pagina digitale. Eleganza dunque, anche nell’estetica. Basta osservare il Custoza Superiore Sanpietro per capire. Nonché il Bardolino Superiore (del resto la maison fa parte sia del Consorzio Vino Custoza sia del Consorzio di Tutela Chiaretto e Bardolino). Due vini fieri d’indossare l’abito blu. Il primo concentrando garganega, trebbiano, trebbianello, bianca Fernanda (un clone local del cortese) e Manzoni bianco. Per un vino “di presenza”, come commenta il sommelier Costantino Gabardi. Il secondo pronto invece a inanellare corvina, rondinella e merlot, fra note speziate e di frutti rossi. Tanto il blu torna. Pure sull’etichetta del Custoza più giovane, profumato e minerale (da provare con i tortellini di Valeggio sul Mincio); e su quella del Refolà, un taglio bordolese che s’inchina all’uso veronese di far appassir le uve. In questo caso di cabernet sauvignon, che si uniscono a quelle di merlot. Poi poi passare 12 mesi in barrique nuove e 36 in bottiglia. Da non perdere? I picnic in vigna e le passeggiate in ebike con degustazione e visita in cantina (da prenotare qui). Senza dimenticare le wine experience in musica del giovedì sera. 

    Cocktail in stile Aesthetic all'Unseen di Milano

     

    Flusso waporwave

    Una dimensione esperienziale. Inedita e multisensoriale. Nella quale entrare, bevendo un cocktail e andando oltre il cocktail. È quella che promettono di regalare Milo Occhipinti e Alessia Bellafante, capitani di Unseen (sì, come mai visto), locale posizionato in zona Lambrate, a Milano. Che per la new drink list ha pensato bene di innescare, a ritmo di sorsi, una serie di trigger emotivi. Evocando ricordi golosi, sintonizzati sulla fine degli anni Novanta. In una sorta di rinascimento pop, in perfetto stie Aesthetics. Così le frizzanti caramelle all’anguria tornano in mente grazie al Pastel Skies, complici lime e anguria; il Pirate of Love scatena la freschezza, fra sorbetto tropicale a base di passion fruit e ananas, con corredo di aggiunta di gelato alla vaniglia; il Beach Walk Katumi rende omaggio alla cremosità, grazie a cocco, mango e sesamo; e l’Azul rammenta il celebre gusto puffo, in una rivisitazione del Frozen Margarita. Per un drink dal mood blu. Che vibra anche nell’highball pronto ad accogliere il Pow3r Juice. Il tutto servito in uno spazio unconventional, essenziale, ironico e inclusivo, che scardina i cliché del bar, eliminando la classica bottigliera, prediligendo un tavolo social (incorniciato da minimali sgabelli) e servendo in primis cocktail pre-batch. Limitando così l’eccessiva spettacolarizzazione del barman e puntando invece i riflettori (fluo) su cliente e contenuto. Mentre floppy disk divengono sottobicchieri e vibrazioni elettroniche pervadono pareti brutaliste. Volutamente vocate al non-decorativismo. Intanto, a tracciare e a lasciare una scia di retrofuturismo concorre il colore. Anche quello blu.

    T: Cristina Viggè

    07-07-2023

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